giovedì 29 maggio 2008

Diciassette.

Già, il numero della sfortuna.
Ma non importa.
Il blog chiude qui.
E' stato un tentativo, divertente certo.
Sicuramente piacevole.
Purtroppo, però, non ha avuto l'esito sperato.
Non importa.
Chi non fa, d'altra parte, non falla.

Ah, ancora una cosa.
Chi volesse, posso mandare tutto il file.
Una mail qui.
teoalcirco(at)hotmail(punto)com

Teo

giovedì 24 aprile 2008

Sedici

Nel capitolo precedente: si può essere felici anche con poco.
Si può essere felici anche con meno.
L'importante è capire per cosa si è felici.
E a questo qui, probabilmente, secondo me, basta stare con lei.
Anche perché, secondo me, non ci sta proprio capendo niente.
Ma ti pare che si va in giro per tutta Milano come dei deficienti?
E poi, ancora secondo me, qui qualcuno porta sfiga.
Muoiono tutti...moriranno anche loro!
Almeno, adesso, son vicini a qualcosa... a qualsiasi cosa...Ma cosa?


E invece a qualcosa, non eravamo vicini per un cazzo. E questo pesava anche su di me che, lo sentivo nelle dita, non riuscivo a toccare più niente. Tutto era rimasto sospeso a livello di parole. O di banalità da quattro soldi, come i gialli delle fiction televisive campioni d’incasso. Per un po’ ci si poteva anche giocare su, girare alla scoperta di chissà che America, cercare strade nuove, alcune da imparare altre ben note, poter decidere che auto prendere e quindi sentirsi un po’ ricco e un po’ in incognito ogni volta.
Solo che dopo un po’ che se ne parla, se ne parla un po’ meno, sempre meno, finché la cosa scema e poi non se ne parla più. Come un sogno che diventa ambizione, quindi un progetto e poi diventa un ricordo.
Fuori pioveva, e pioveva anche tanto. Era domenica mattina, e l’inverno era lì senza che sapessi dove fossero i maglioni. Sentivo le gocce battere sui vetri come aghi secchi di pino.
Appoggiato sui gomiti e sul bancone, pensavo che sarebbe stato difficile, per la squadra di casa, giocarsi la partita a San Siro, con le zolle che si alzano, l’erba pesante, le pozzanghere davanti alle porte e tutto il resto. Per non parlare delle dita dei piedi degli spettatori che si sarebbero atrofizzate sugli spalti. Però, per quanto mi riguardava, cambiava poco. Ero all’asciutto e il calcio lo seguivo poco. Oppure, ero semplicemente vittima della pigrizia che assale ogni persona quando fuori fa freddo. Ma va’. Era solo l’incipit della stanchezza che nasce sempre dopo l’inizio.
Infatti, dopo averne discusso con Emily a casa mia, ci eravamo trasformati in una sorta di Starsky ed Hutch all’italiana. Automobile anni 70, giri immani per la città seguendo delle piste che erano basate più sulle intuizioni, che su dei sospetti. E buttarci la sera sul divano, insieme come due note di un accordo, mi bastava a ricaricare le pile per il giorno dopo. Però poi non bastò più, e anziché ricaricare al cento per cento, si arrivava all’ottanta. Poi al settanta, al sessanta, al quarantacinque. E così via, verso lo zero.
Me ne accorsi quando feci il terzo pieno in tre giorni. Alla Fiat Cinquecento, una macchina che praticamente consumava come un Vespino. La cosa non era più sostenibile. Certo, era bello aver di che parlare per ore e naufragare nelle strade, ma non avevamo concluso niente e, sinceramente, più che stanchezza, sentivo la noia salirmi nelle gambe.
Provavo la stessa sensazione da piccolo. Ad un certo punto dell’estate, forse qualche giorno prima di ferragosto, volevo lasciare i nonni in Molise e tornare a casa, a Milano. Nonostante sapessi che anche di quello mi sarei stancato presto e mi sarebbero mancate le patatine a forma di bambino della nonna, qualcuna senza un braccio o una gamba. Ma volevo tornare a casa mia e basta. Per sentire ancora una volta quell’odore di chiuso di due mesi e ritrovare nei cassetti le macchinine nascoste nel timore di chissà cosa.
Tanto più che la Cinquecento era uscita di molto dal confine del gioco. Qualche giorno prima, fu proprio la vecchia Fiat bianca a darmi uno dei più grandi dispiaceri. Nessun guasto, certe meccaniche durano quarant’anni, figurarsi, ma lei, parcheggiata nel box, muso in avanti e sterzo girato di 90 gradi, be’, non era la stessa cosa. Sarà stato forse per nostalgia, ma era una questione di linea, di stile, che l’Alfa aveva e la Cinquecento no, tutto qui. O forse era solo questione d’amarezza, visto che l’Alfetta me l’avevano portata via dei ladri vigliacchi, di notte, senza nemmeno accenderla. Anche perché, a far girare il motore, uno se ne sarebbe accorto.
Certi suoni sono come i pianti dei proprio figli.
Avevano fatto un lavoro di fino. Serratura de garage intatta, addirittura avevano richiuso la porta. Ai Carabinieri, durante la denuncia, sembrò strano. Secondo loro ero un drogato ubriacone che l’aveva parcheggiata chissà dove e se l’era scordato. Inoltre risultavo anche essere un disoccupato qualsiasi, e per fortuna. Se avessero saputo dove lavoravo, magari mi mettevano pure un galera.
O forse lo sapevano e quel gioco di sottintesi e “noi sappiamo che tu non sai” li divertiva un mondo. Invece io piangevo, le guance calde e l’aria quasi liquida in gola.
Sin dalla mattina mi ero svegliato con un groppo allo stomaco che non riuscivo a collegare a nulla. Forse alle mille sigarette fumate ogni giorno. Ma le mani tremavano e il perché non lo trovavo in nessuna spiegazione razionale.
E quando scesi ad aprire il box, vedere che solo l’ombra del tubo di scarico sul muro indicava la presenza dell’Alfa, mi fece cadere in ginocchio. Cominciai a singhiozzare, senza temere il mio volto di fronte ai vicini.
Più che derubato, mi sentivo tradito, dall’Alfetta che aveva deciso di andare con qualcun altro. E se nemmeno l’Arma riconosceva la sincerità delle mie lacrime, non serviva a niente continuare a dare spettacolo.
Fatto sta che non firmai la denuncia. Tanto, a quel punto, la voglia di fare qualsiasi cosa fuori dall’ordinario, mi era passata da un pezzo.
A Emily invece no. Le idee le venivano tante quante le gocce di pioggia che ora mi martellavano sulla testa e sull’asfalto. Sembrava non le importasse nulla del mio stato d’animo. D’altronde, l’avevo assecondata in ogni modo, senza pretendere nemmeno una sua qualche spiegazione riguardo al suo accanimento. Credeva avessi solo voglia di qualcosa di diverso in una quotidianità che non mi dava proprio niente. E io non mi ero preso la briga di spiegarmi.
Ma ora che i soldi sostanzialmente cominciavano a finire, non mi sembrava più il tempo di perdere tempo.
Anche questo, Emily lo sapeva. Se n’era accorta dal mio modo di cambiare le marce, sulla pigrizia delle doppiette, dalla maniera di non accompagnarla nelle biblioteche. Ogni cosa cominciava a darmi fastidio, persino quel suo modo di volermi distrarre. Ma non capendo che non mi aiutava affatto, per conto suo, andava avanti. Ma dove?
Partendo dalla morte del Turri, aveva cominciato a studiare i piccioni. Aveva letto che davvero erano tra gli animali più evoluti della propria specie, avvalorando l’articolo e le tesi del giornalista. Eravamo tornati in Sormani e aveva letto l’articolo dieci, cento, mille volte. Pensava che ci fosse sfuggito qualcosa, un minimo particolare, che costituiva la chiave di svolta della vicenda.
E invece, niente. Avevamo dopo un mese le stesse informazioni che avevo io la prima volta.
E di giri così, a vuoto, ne avevamo fatti mille. Negli uffici comunali, per capire gli spostamenti, ma il signor Anselmo risultava essere sempre stato residente lì. Niente. Al catasto, per capire i cambiamenti interni dell’appartamento, eventuali ristrutturazioni o cose simili. Niente. Persino alla società dei telefoni, per trovare un minimo spiraglio. Niente. Eravamo tornati all’appartamento dei signor Anselmo. L’avevamo ricostruito, grazie alle foto che aveva fatto Emily perfettamente. In ogni minimo particolare. E l’avevamo sviscerato in ogni più nascosto angolo. Mi chiedevo se stessimo cercando realmente qualcosa o se lavorassi part time per un’impresa di pulizie. Niente.
Ma le cose, se devono andare in un certo modo, continuano ad andare in quel certo modo. Noi avevamo girato per giorni e giorni senza cavare un ragno da un buco, anzi. Al catasto, tra carte e scartoffie, a casa, tra pentole e poltrone, ovunque insomma, di ragni ne avevamo trovati fin troppi. Ma solo quelli, niente di utile. Era stata la goccia e il vaso.
E così, anziché a quell’attività becera, mi ero dedicato al tabagismo a tempo pieno.
In macchina non si fumava, ma appena fuori, le natiche appoggiate alla lamiera, accendino e sigaretta. E Emily andava, entrava, leggeva, faceva. E io fuori a spipazzare. Placido e rassegnato come un coccodrillo.
E ogni volta che usciva da qualsiasi posto, in silenzio, i passi in quattro quarti, entrava in macchina, aspettava che finissi, se stavo finendo, e diceva: “Niente”, scuotendo il capo.
Dopo un po’, nemmeno l’andai più a prendere. Veniva lei da me, a scuotermi. Un caffé insieme e poi si usciva. E ancora una giornata, fino a sera, a fumare sigarette e a sentirmi dire: “Niente”, mentre scuoteva il capo.
E va be’. E poi, al buio, nella mia cucina che puzzava di chiuso e colazioni, da quanto ci stavo, si faceva il riassunto. Sempre allo stesso modo, con quei soli quattro elementi da poveri che avevamo.
E se nemmeno quattro indizi fanno una prova, figurarsi quattro elementi.
Un tuono suonò dietro le finestre. Il citofono trillò come un trapano, ma non mi mossi di un centimetro.

venerdì 4 aprile 2008

Quindici

Nel capitolo precedente: le cose scivolano così.
Uno fa un passo alla volta. Poi sembra che non serva a niente.
Prendi loro. Vanno, fanno, disfano.
E sembra anche che non serva a nulla.
Ma poi magari a qualcosa serve.
A qualcosa serve sempre.
Questo lo sanno tutti.
Ma a cosa, purtroppo, non lo sa nessuno.


La luce della televisione illuminava la stanza in maniera intermittente. Se non avesse avuto l’audio, sarebbe stata una degna alternativa a un abatjour.
Emily non ne aveva voluto sapere di andare via, e mi aveva seguito lungo le scale dei box, in casa, fino in cucina. Non capivo a fondo il suo comportamento, ma i suoi passi in quattro quarti, in effetti, non mi dispiacevano affatto.
Tolsi il volume alla televisione, e mi sedetti al tavolo. Lei di fronte a me.
Non sapevo se il mio viso era messo in ombra dalla sua testa, ma restava il fatto che io, negli occhi, non riuscivo a vederla. La luce dello schermo, alle sue spalle, le evidenziava il perimetro dei capelli, come fosse un’aura moderna. O la vecchia pubblicità dell’AIDS.
Mentre pensavo a queste cose, lei, come se a casa mia ci fosse già stata, prese i bicchieri dalle ante sopra il lavello e la bottiglia di vino dallo sgabuzzino. Ondeggiava sulle anche quasi come una ballerina.
Era un vino della Valtellina, di quelli buoni che sempre provengono da uve di Nebbiolo. Non potevo esimermi dalla constatazione che era uno dei miei preferiti.
“Ma come facevi a saperlo?” le domandai.
“Tutti, in tutte le case, hanno dei bicchieri sopra il lavello e il vino, lo tengono nello sgabuzzino e nelle ante in fondo in cucina. A meno che non sia a vista, d’accordo. Come le posate. Sono sempre nel primo cassetto. Facile, no?”
In effetti aveva ragione. Ci sono particolari che rientrano nel codice genetico delle persone.
Per i francesi la R uvulare, per i tedeschi la durezza e rigidità, per le svedesi la bellezza, per i cinesi il riso. Non si scappa.
Fatto sta che, seduti uno di fronte all’altra, i pensieri ci imbrigliavano quasi fossero fango. Non riuscivo a fermarne nemmeno uno, come se in realtà non pensassi, e probabilmente per Emily era lo stesso. Negli appartamenti accanto al mio, si sentiva la vita sfilare indifferente ai miei bisogni. I rumori di piatti e di televisioni annunciavano la cena, insieme al vociare sommesso sulla giornata appena trascorsa, che non avevo mai capito. Quando i miei genitori si raccontavano in maniera più o meno concitata ciò che era loro successo, da bambino sciocco mi ci arrabbiavo. Non capivo che senso avesse condividere una giornata normale, proprio per loro che, in condivisione, oramai avevano già tanto tempo.
Eppure, quella sera con Emily di fronte, ne sentii il bisogno.
E fui pronto per sfiorarle una mano, la allungai lentamente con fare distratto e sentivo il sangue che cominciava a scorrere velocemente nelle vene. La muscolatura delle falangi sembrava gonfiarsi e inibire i movimenti, come quando le braccia diventano di legno dopo aver fatto uno sforzo da portuali. Potevo quasi sentire il contatto, potevo immaginare di sfiorarla, quando iniziò a parlare. E tutto si ruppe. Rilassai i muscoli tesi e inspirai.
“Sentiamo”, dissi scontento.
A lei non tornavano i conti. Si lamentava del mio procedere a tentoni. Che cosa pretendeva. Mica ero un investigatore privato. E poi chi ha detto che procedevamo in modo sbagliato, dal momento che c’è un modo giusto o sbagliato di procedere se, per procedere, si ha un punto verso cui procedere.
“Perché se questo punto non c’è, mi dici che senso ha, cara?” mi stavo stizzendo ed ero acido. In primis, perché non sopportavo le critiche. Secondo, perché avevo altre intenzioni. Infine, perché se uno si mette nei casini, deve sbrigarsela da solo. E poi volevo fare altro, ecco.
Ma nonostante il mio malumore, continuò.
“Anche se è morto?”
“Anche se è morto. Poteva pensarci prima.”
“Sì. Pensarci prima a morire”
“No. Pensarci prima e basta. Prima di mettersi nei casini. La morte, alla fine, è sempre dietro l’angolo. Per questo uno deve sempre seguire la massima di Confucio:” le risposi trionfale citando il signor Anselmo, “fatti i cazzi tuoi”.
L’avevo stesa ed era chiaro. Ma anziché sentirmi un piccolo Cesare, mi sentivo un piccolo imbecille.
Forse perché l’avevo ferita.
Ma non importava, ci sono situazioni in cui tutto è lecito. Soprattutto quando lo scambio è uno a uno: o io o lei. E in quel caso, in ogni caso, era meglio io.
Però restava un fondo di vero, nell’affermazione di Emily. E forse per recuperare, forse perché anche io ne ero convinto, glielo dissi.
“In effetti, le cose non tornano. La lettera per il Turri che aveva scritto a me. E il Turri era morto una decina di anni prima. E il signor Anselmo non poteva non saperlo, se poi sulla tomba c’era un signor Nessuno che mi aspettava. Bo.” Conclusi. Bevvi il vino nel bicchiere d’un fiato, come fanno gli anziani dopo una mano di carte venuta male, nei circoli di bocce.
Emily invece sorseggiò. E leccandosi il labbro superiore, cominciò.
“Senti. Vediamola così. Mi hai detto dell’odore di caffé. E nemmeno con la Comare, la cosa non rientra. Allora quello può essere un punto. Punto che non rientra però con la casa. O non ci abitava in quella casa, o a te, ti ha mentito.
Nella lettera che ti ha spedito, ha detto che sarebbe partito per un lasso di tempo abbastanza ampio. Allora, ad esempio, perché l’affitto scade tra sei mesi e non subito?”
Come è strano notare che, quando le discussioni si fanno più focose e le distanze diventano maggiori, anche il linguaggio cambia. e diventa più forbito.
“Sì, magari è un’idea. Ma magari ci sono anche delle difficoltà contrattuali, che ne sai. O forse, la sua idea di tanto tempo può essere anche un mese. O forse non voleva perdere la casa. Che ne sai. Certo non aveva calcolato di morire!”
“Può essere, va bene. Ma come ti spieghi il Turri. Voleva che venissimo a conoscenza della sua morte, della tipologia più che altro, no?” e, mentre mi spuntava un sorriso sopra i denti, Emily si irrigidì fino a gelarmi con gli occhi. Abbassai la testa e, se avessi potuto, avrei abbassato anche le orecchie sugli occhi. Finsi che invece non mi era capitato niente, cercando le sigarette in tasca. Ottima trovata, per recuperare la mia posizione.
Spesso con Emily mi sentivo così. Un giocatore fuori ruolo alla mercè dei cronisti. E quelli dei lei erano gli occhi dell’allenatore che ti rimproverano e allo stesso tempo ti spronano. Una cicatrice che poi, per forse tutto il campionato, tra l’orecchio e l’angolo della bocca, con quanti punti di sutura vuoi, non sarà mai del tutto rimarginata. Sbadigliai.
“Probabilmente, volevano che arrivassi fin lì, idiota. Non ci hai pensato?” mi rimbrottò.
Il tabacco e la carta cominciarono a bruciare sfrigolando.
“Probabile. Non sapevo di questo tuo fiuto, però. Allora adesso dobbiamo aspettare che qualcuno o qualcosa ci dica che fare, semplicemente.”
“No. Cerchiamo di capire il tuo odore di caffé.”
“Ma da dove partiamo, capa?” un po’ mi stavo cominciando a divertire. Anche se le redini dovevano tornare in mano mia. Il signor Anselmo conosceva me, non lei. Aveva lasciato tutto a me, non a lei. Aveva spedito la lettera a me, non a lei. Glielo feci presente.
“Chiaro. Allora arrangiati. Io vado a casa. Fattelo da solo” disse mentre le gambe della sedia cominciarono a trascinarsi sulle piastrelle del pavimento.
“No, no, aspetta. Ok, facciamo insieme” e lei si rimise a sedere, respirando paziente come una mamma.
“Ancora una cosa, Emily. Perché mi ha detto di prendermi cura di te, se non vi siete mai conosciuti?”, le chiesi con il dubbio venuto fuori come un singhiozzo.
“Senti. Io non lo conoscevo. Però anche a te ha detto che ti trovava bene, anche se un po’ dimagrito. Evidentemente ti osservava e, se osservava te, avrò visto anche me. Non ti pare?”
Mi aveva battuto. Anzi, mi aveva proprio fregato. E nel suo volto contratto si notava chiaramente che aspettava una mia risposta che confermasse la sconfitta.
Con un cenno di assenso gliela concessi. Ma pensai che lì dentro ero io l’uomo, cercando il qualche modo di pareggiare la partita. E poi io giocavo in casa. E non contava niente che i gol fuori casa valessero doppio. In questa competizione, per lo meno, non importava.
“Va bene, dai. Vuoi una sigaretta?” dissi. Se non avessi avuto l’ultima battuta, quella di chiusura del discorso, sarei andato troppo giù. Dovevo ripreparare la piana di contesa.
Però, me ne rendevo conto, questo gioco cominciava a piacermi. O forse mi piaceva stare con lei.
“E domani allora andiamo a prendere la Cinquecento. Dobbiamo cominciare a pensare come il signor Anselmo. L’ho visto nei film”, dissi fiero di una mia conclusione, spegnendo il mozzicone nel posacenere. Non ci riuscii del tutto. Un filo di fumo si alzava ancora. Mi alzai e vi misi dentro un po’ d’acqua. Avevo sempre avuto paura dei fuochi.
Emily scosse la testa come a dire no, ma non lo disse. Avevo proprio voglia di andare in giro con quella scatolina bianca.
Lei, fu chiaro, capì il mio pensiero.
“Togliti quel sorriso dalle labbra. Sembri uno stupido”. Sorrise, come solo in certi momenti si sorride. Allungai il dito a sfiorarle il labbro inferiore, come se così facendo potessi rapire un po’ di quella bellezza ingenua. Il lampadario rifletteva l’ombra del mio braccio sul tavolo, il calore del respiro che le usciva dal naso mi sfiorava il dorso della mano. Non mi vennero in mente né il bue né l’asinello, ma quel vago odore di marsiglia che si alzava nella cucina mi scuoteva alla bocca dello stomaco.
Nella testa e davanti agli occhi mi scorrevano veloci le immagini degli ultimi giorni. Quel finto enigma cui non sapevamo rispondere, quell’inchiesta da poveri in cui c’eravamo imbarcati più con curiosità che con istinto poliziesco e le mani di Emily che si agitavano lente nel suo modo di parlare.
La mascella si mosse e si contrasse nel desiderio di baciarla. Stava cambiando qualcosa, tra noi e intorno a noi.
Forse, davvero, eravamo vicini a qualcosa.

venerdì 21 marzo 2008

Quattordici

Nel capitolo precedente: be', mi sembra che siano arrivati a buon punto, no?
Lui che scopre praticamente niente. E quel tizio chi è? Boh.
Solo che poi c'è un altro tizio che ti dice di andare a vedere un giornale. Mah, sarà.
Sarà che questi due mi sembrano due scemi.
E lei che sembra che un po' alla volta... ma sì, ma sì.
Questi due, va a finire che limonano.


Girai la macchina verso via Larga, dopo un semaforo mischiato con quei palazzoni a specchio che nascondono gli impiegati. Procedevo a sbalzi, senza più dire una parola. Emily probabilmente pensava che fossi rimasto scosso dalla sua azione reazionaria di bucarmi la macchina, ma non era quello il motivo. Era chiaro però, da come muoveva le mani, intrecciate come mozzarelle, che iniziava in lei a muoversi il senso di colpa.
Fu a metà di via Larga, dopo un negozio che vendeva divise e ammennicoli militari, che staccai male la frizione e spensi la macchina allo scattare del verde. Fui sorpreso quanto lei di quel gesto.
Non mi era mai successo. Ed entrambi sapevamo bene quanto ciò potesse danneggiare valvole e pistoni. Senza calcolare i dischi della frizione che si erano chiusi di scatto.
Ma anziché maledirmi, scoppiai a ridere. Di un riso che mi obbligò a fermare la macchina davanti alla fermata di un autobus, senza curarmi come era ovvio del divieto di sosta e di fermata. L’autobus sarebbe arrivato comunque, si sarebbe fermato in mezzo alla carreggiata e l’indifferenza dei passeggeri avrebbe svolto ugualmente il suo ruolo. E quando questo successe, mi sentii circondato da milioni di formiche che svincolano l’ostacolo.
La preoccupazione di Emily fu evidente quando iniziò a mangiarsi le unghie. La cura che dedicava alle sue mani non bastava alle sindromi nervose. Però bastava a sgelare la situazione e a cominciare il discorso sul Turri. Quanto a strategie di difesa, ero un vero mago.
“Un attimo, adesso te lo dico” mentre già le lacrime mi scendevano, superati gli zigomi, facendo lo slalom tra i peli di barba.
“Ho trovato l’articolo che parla del Turri”, dissi tra i singhiozzi ottusi che il fiato interrotto mi provocava.
E le dissi tutto. In un intervallo variabile tra i due minuti e la mezz’ora. Non riuscivo più a trattenermi.
“Poveraccio”, fu il suo commento dopo aver saputo dei piccioni. D’altra parte i giornalisti ci vanno a nozze con storie del genere. Il gusto del macabro ha sempre fatto buon gioco al successo di un articolo, e non importava l’impostazione di partito o liberale del giornale, in questi casi. E il fatto che il Turri stesse percorrendo i Navigli con la sua 127 non dava meno colore al pezzo.
Ma era a questo punto la cosa più divertente. Sembrava si volesse descrivere una nota caratteristica della città meneghina, la quantità di piccioni presenti nel centro di Milano aveva affascinato da sempre i turisti. Ma che i piccioni stessi, da animali innocui e sufficientemente stupidi, si trasformassero in arma di morte e distruzione, non era mai stato nemmeno considerato. Invece, questa volta si erano ribellati. Non si sa se contro il rumoroso motore delle macchine degli anni ’70, o se contro uno sgarbo subito nella propria zona, come nei grandi film di gangster ormai andati. Restava il fatto, ben descritto nell’articolo, che uno stormo di piccioni –ma poi, i piccioni si spostano a stormi?- aveva attaccato la macchina del povero Turri. Ma non solo. Il primo dei suddetti volatili gli aveva addirittura rotto il finestrino, lasciando su uno spuntone le penne, mentre un secondo, che lo seguiva a ruota, gli si era ficcato con il becco nella tempia.
A questo punto, il Turri era uscito fuori di strada, “per lo spavento” aveva detto la Polizia, “già morto” diceva il giornale, ed era finito nel Naviglio Grande. Se fosse morto affogato o se fosse stato ucciso dai piccioni non era ancora chiaro. Segnale più che manifesto, invece, erano le cagate di piccione rimaste sulla zona, fatto inquietante e inconcepibile. Come se i piccioni volessero comunicare ai civili che dovevano lasciare a loro la zona.
E non finiva qui. Il giornalista, giunto sul posto prima dell’Arma, si lasciava andare in disquisizioni pseudo scientifiche, e aggiungeva che i piccioni, uno dei volatili più evoluti della loro specie, i corvidi, anticamente cacciavano e uccidevano proprio grazie al becco. E ancora, che il movimento altalenante della testa, avanti e indietro, era un retaggio del passato: infatti, proprio questo congegno a molla del collo, permetteva loro di attutire l’impatto e di restarci secchi. In questa maniera, quindi, era stato ucciso il Turri.
“Divertente, no?” dissi, senza riuscire a fermarmi.
No, per lei non era divertente. Con gli occhi spalancati e le mani rapprese, Emily era sconvolta.
Non credevo che la mia capacità narrativa fosse tanto poco coinvolgente. E più la cosa a me faceva ridere, e più Emily mi guardava spalancando gli occhi. Ad un certo punto mi fermai, temendo forse che i bulbi le uscissero dalle orbite.
“Cosa c’è”, le chiesi. Non mi sembrava tanto assurdo ridere di una morte improbabile. Forse perché non era un mio parente, ovvio, ma non mi sembrava tanto assurda. Come quella del veterinario che doveva liberare una mucca costipata. Ma fumava e, col peto atomico della mucca, aveva preso fuoco. Certe storie metropolitane già fanno ridere in quanto leggende, figurarsi se diventano realtà.
Ma lei non era d’accordo. Lo considerava sciocco e di cattivo gusto. E poi c’era morta una persona che, seppure non conoscevo direttamente, era pur sempre un amico del signor Anselmo.
“Argomentazione fiacca”, le risposi indispettito. Non è possibile che ad una persona, che di gusto già non ride mai, le si taglino le gambe di netto una volta che si diverte, che cazzo.
Basta. Mi era stata rovinata la giornata. Sarei rimasto di cattivo umore fino a sera.
Riaccesi la macchina che, unica soddisfazione, partì al primo colpo. Misi la freccia, la prima, con l’intenzione di portarla a casa, metterla a riposo nel box e bere un bicchiere di vino. Che Emily si arrangiasse. Per quanto mi riguardava, poteva anche tornarsene a piedi.

venerdì 14 marzo 2008

Tredici

Nel capitolo precedente: oh, finalmente pare le cose cambino un attimo. Un attimino.
Poi vediamo.
Ma il fatto è che questo qui si muove sulla scia dell'emozione.
Un minimo di vento caldo e lui è già in mutande.
Sembra di essere quasi in quei film degli anni 80 in cui non succede niente ma poi è successo un casino di roba, tanta che tu non te ne sei nemmeno accorto e poi è tardissimo e forse non è successo, credi, nulla perché ti sei addormentato sul più bello, e poi gli amici invece ti dicono 'Oh, ma che figata! Il film di ieri, non l'hai visto?' e tu, sì sì, l'ho visto, ma a me non sembrava granché e ti senti un po' scemo perché mica ti sarai addormentato per davvero con un film così stramaledettamente bello...


Al bar non lasciai trasparire più niente, anzi. Mi dedicavo ai clienti e alle signorine con un’attenzione quasi fastidiosa. A volte, con cenni blandi della mano, addirittura mi invitavano ad allontanarmi. I tavolini di ferro erano costantemente lindi e puliti, come se temessi un’improvvisa visita di un ispettore d’igiene. Lì, dove non mettevano nemmeno piede i vigili urbani. In quanto tali, ovvio, non in quanto uomini, visto che, in quanto uomini, ci mettevano qualcosa di più di un piede. L’unico elemento che mi fregava, invece, era l’ascolto dei GR. Mi preoccupava. Pensavo che da un momento all’altro sarebbe uscito qualcosa di particolare, che mi riguardava più o meno direttamente. Tenevo la sigaretta fra i denti, per i minuti di cronaca. Solo allo sport, lasciavo che l’indice e il medio della destra facessero riposare i muscoli della mandibola.
Spesso, sollevando la mano dal bancone, lasciavo l’impronta del palmo. Come nelle caverne primitive, quasi.
Però tutto mi sembrava filare liscio.
Un giorno, Emily mi chiese un passaggio per tornare a casa. Smontavamo insieme, coincidenza o volontà, e io non vidi alcun motivo per negarglielo. Dalla sera al cimitero, non ci eravamo quasi rivolti parola a riguardo.
Avevo bisogno di rompere gli indugi. Mentre si aggiustava con le mani la gonna sul sedile, le parlai. Dei sospetti e dei poliziotti, di quel poco che sapevo e di quel tanto che immaginavo.
“Era l’ora che ti decidessi. Anche io ho delle cose da dirti. La tomba del Turri. C’era un tizio che ti aspettava. E invece ha trovato me. A Musocco, piangevo per la paura”
“E cosa ti ha detto.”
“Certo, non mi ha fatto niente!”, si mise a gridare.
Non l’avevo mai sentita farlo. Nemmeno a fingere gli orgasmi. Doveva aver avuto paura per davvero. E poi non aveva niente, di cosa dovevo preoccuparmi. E dal momento che era tornata a lavorare, nemmeno lo stupro era cosa da avvalorarsi. Mi stupii però del fastidio che poteva crearmi la sua voce in quella tonalità acuta. Bisognava smettesse, per il mio bene.
“Sì che mi preoccupo, scusa”, cercai di recuperare, “ma dimmi. Allora?”
Insomma. Questo tizio che aveva incontrato lei aveva mandato l’altro tizio a tenermi compagnia e a riferirmi quello che era stato riferito a me. Voleva tenermi occupato, ovvio.
“Per questo poi a cena non se n’è cavato un ragno da un buco. Continua”, intervenni.
Emily concluse. E la cosa mi puzzava. Non sapevo perché, ma il mio sesto senso mi diceva che sarei tornato la sera a casa troppo stanco per guardare un film. Però, la cosa stava cominciando a divertirmi.
In primo luogo, il tizio della tomba le aveva dato il nome di un giornale e consigliato di leggere l’articolo del giorno in cui era morto il Turri, la pagina della cronaca.
“E basta?” domandai quasi stizzito.
“Basta”, mi rispose Emily. “poi dobbiamo aspettare”
“Non mi torna un particolare. Che cosa c’era scritto nella lettera del signor Anselmo.”
“Niente. Era una sorta di lasciapassare perché il tizio al cimitero ci riconoscesse.”
“E perché ci hai messo tutto quel tempo per uscire. In fondo non avete parlato molto”, le chiesi temendo di uno straordinario piuttosto macabro.
Si incazzò. “Coglione. Sai perché vivo così, e sai anche che non mi piace. Ci ho messo tanto perché ha voluto assicurarsi su chi fossi. Aspettava un uomo e mi presento io. Ti pare?”
Quindi prima tappa, la Biblioteca Sormani, l’unica che possedeva microfilm e archivi di quasi tutti i giornali. I malumori di Emily erano secondari. Il fatto che guardasse fuori dal finestrino, con il naso attaccato al vetro, non mi toccava minimamente. Se non per il fatto che, al vetro, l’unto del naso sarebbe rimasto. Ma forse non era il caso di farglielo notare adesso.

“Che morte da sfigato” fu il mio primo commento. I muscoli della faccia erano rimasti tesi per soffocare il riso. Non riuscivo a trattenermi. Ero in una biblioteca, d’altronde.
Riavvolsi il microfilm su cui era stato trasferito il giornale del mese in cui era morto il Turri, e lo riconsegnai.
Con le labbra ancora tirate, lungo le scale respirai i libri e le voci degli studenti ai quali una volta ero appartenuto pure io. Non li invidiavo affatto, con i loro giorni persi di ozio tra una vacanza ed un esame. Anzi. Se avessi potuto, avrei detto a tutti loro, uno per uno, che quella condizione era la stessa di chi, seduto sulla tazza, non ha più niente da dare ma vuole finire il capitolo del libro che sta leggendo.
Sorridevo anche a quest’idea, ma uscii. Parcheggiata tra le strisce gialle dei portatori d’handicap stava l’Alfa; appoggiata con l’anca al cofano, invece, Emily fumava.
Era stata una dimostrazione di forza. Aveva urlato, biascicato e persino sbattuto la portiera per non farmi parcheggiare in quello spazio. Minacciandomi di una multa salatissima e della rimozione.
“Benissimo”, le avevo risposto. “Allora tu resti giù a curarmi la macchina”.
Era rimasta talmente di sasso che non si era mossa. E io avevo colto l’attimo per fuggire via veloce dalla situazione.
Appena mi vide, inspirò ed espirò velocemente. Guardò con lentezza il braciere che aveva in mano e fece per calarlo, ancora acceso, sulla scocca gialla.
Questa volta fui io a rimanere pietrificato. Sembrava che lo stesse facendo a me. Addirittura, mi parve di essere come in quelle performance di body art, in cui l’artista o il deficiente, a scelta, si conficca una graffetta nell’uretra e si accappona la pelle dello spettatore per il dolore che non prova.
Le unghie di Emily si fermarono a mezzo centimetro dalla vernice. Sentivo io il calore che c’era in quella piuma di spazio.
“Non provarci mai più” sibilò.
“Certo, mia padrona” fu quello che telepaticamente le trasmisi. Non ero in grado di parlare. Sentivo un peso alla bocca dello stomaco, appena dietro allo sterno. Mi mancava il fiato, la bocca aperta a fessura.
Respirai a fondo, come fosse la prima volta. E permisi alle scarico delle auto e dei riscaldamenti di placcarmi ancora un po’ i polmoni di argento e di catrame.

venerdì 7 marzo 2008

Dodici

Nel capitolo precedente: ok, sì. Accetto la lettera. Ma poi il destinatario è morto. Incidente d'auto, ha detto il portinaio terrone.
Magari era sbronzo.
Va be', dicevo.
Ok, sì. Accetto anche il fatto romantico di leggergliela al cimitero Maggiore.
Anche se mi sembra una roba un po' da necrofili.
Che schifo.
Ma tanto lui non è entrato.
E ha trovato un altro tizio, lì fuori. Sembra che lo seguano tutti.
Però, magari, sto tizio, qualcosa, la sa davvero.
Se lo porta via.
Mentre Emily si è pure commossa, alla tomba.
Deve essere una dolce, lei.


E invece, faticoso non lo fu affatto. Un po’ perché il tipo che ci eravamo portati a cena, non sapeva niente più di quello che già aveva detto, un po’ perché la cena fu tuttavia piacevole. Emily, dopo qualche bicchiere di rosso di Puglia, aveva tirato fuori un’anima aggressiva e ironica che non le avevo ancora scoperto. Io e il mendicante scoprimmo invece di aver frequentato lo stesso liceo, e quindi sembrò quasi una rimpatriata con un vecchio amico. Certo, se non avessimo ordinato tre bottiglie di Primitivo così, su due piedi, non sarebbe successo nulla. Però, l’abbiamo fatto e tutto è andato come è andato.
Tornando a casa tuttavia, con il filo di vento che passava dal finestrino e mi alzava i capelli sulla tempia sinistra, mi resi conto che non era stato fatto un altro buco nell’acqua. Non in toto, almeno.
Nel senso. Se prima i sospetti che avevamo sulla morte del signor Anselmo si basavano su illazioni di una vecchia e su sentimenti personali, ora invece, dopo il legame con Turri, avevamo scoperto che qualcosa di più c’era. E se c’era invischiata la Polizia, l’idea diventava una certezza.
Almeno questo, dai telefilm degli anni ’70 l’avevo imparato.
Unico problema: non sapevo da che parte sarei partito né a che punto sarei arrivato. E dubitavo fortemente anche di Emily che, sicuramente, avrei tirato in mezzo. Non ero abbastanza coscienzioso per lasciarla fuori da tutto. E soprattutto, non volevo stare solo. Mal comune, mezzo gaudio d’altra parte. E se si dice, un suo fondamento ce l’avrà pure. Mi piaceva ripeterlo, mi dava sicurezza.
Ero infervorato, e quella sera parcheggiai la macchina come non facevo da tempo. Culo verso il fondo del box, chi se ne frega del muro e della Vespa, fanali e muso pronti ad uscire. E le ruote anteriori leggermente girate. Bisognava tornare ad essere pronti e veloci.
O almeno convincersi di esserlo, altrimenti mi sarei pisciato immediatamente addosso.
O forse era il vino.



Apriamo il giornale radio di questa mattina con un servizio di cronaca che ha colpito tutta l’opinione pubblica italiana.
UOMO MUORE AFFOGATO NEL NAVIGLIO GRANDE: INCIDENTE O ALLARME AMBIENTALE?

È morto questa notte, a bordo della sua 127, Alessandro Turri, privato cittadino di circa 50 anni. Lo ha trovato dentro il Naviglio Grande la squadra sommozzatori del Comune di Milano, dopo aver ricevuto notizia dell’incidente da una signora che ha assistito alla vicenda. Secondo le forze dell’ordine, questo è un incidente come tanti ne succedono a Milano. Ma secondo l’anziana signora che ha visto la scena, il Turri non è sbandato semplicemente.
“No, no. Io ho visto. C’erano tanti piccioni, gli sono andati addosso. Gli hanno spaccato tutti i vetri, lo hanno colpito e poi lui è finito nel Naviglio!”
A supporto di questa testimonianza, ci sarebbero i vetri dell’auto frantumati –rottura tuttavia che può essere ricollegata anche alle necessità di recupero dell’auto- e un foro di un diametro di circa due centimetri sulla tempia della vittima.
Il problema dei piccioni, in una città come Milano, è sorto all’attenzione della stampa e delle Istituzioni ormai da qualche anno. Da quando, circa dieci anni fa, uno stormo ha attaccato la sfilata delle nuove camionette date in dotazione alle pattuglie dei Carabinieri meneghine, arrivando quasi a colpire gli esponenti del Governo di allora giunti come ospiti. Senza però causare alcun danno, fortunatamente.
Probabilmente, in entrambi i casi, è stato violato il territorio che i piccioni avevano riconosciuto come proprio. E quindi hanno attaccato.
Ma è possibile? Secondo Marco Merinei, uno dei maggiori esperti in materia, sì.
“I piccioni sono tra i più evoluti della propria specie. E anticamente avevano proprio questa caratteristica. Infatti, basti pensare che riescono a raggiungere in picchiata più di 100 chilometri all’ora, che riescono a individuare le fonti di calore nei corpi degli altri esseri viventi, che riescono a rimanere illesi nell’impatto grazie al loro collo a molla”
Siamo davvero in pericolo?

Da Milano, Libero Maria Della Valentina.

giovedì 21 febbraio 2008

Undici

Nel capitolo precedente: va', guardalo. Lancia via la sigaretta come avesse detto chissà che verità.
E invece si è messo solo a fare quello che gli aveva detto di fare il vecchio. Prendere un minimo la situazione in mano, tenerla un minimo in pugno.
Sì, tanto in pugno che appena ha deciso di andare da solo dal Turri, con lui ci va anche Emily.
Bel pugno di cioccolato, che ha questo qui.
Butto via anche io il mozzicone, va.
Rientriamo.
Ché qui fuori fa veramente freddo e mica posso star qui a pettinare le bambole.


Giravano i numeri rossi sul contachilometri e osservavo le strade in ogni loro angolazione, giusto per cambiare, ma mi stavo cominciando a scocciare. Sempre con la stessa dinamica, le stesse posizioni, le mani attorno al volante. Emily guardava fuori con gli occhi spenti del piccione. Stringeva tra le mani la busta che dovevamo consegnare, ma solo Dio sa quanta voglia avrebbe avuto di aprirla. Lei, io no. Io sono uno che nelle cose ha sempre voluto starne fuori e non sapere niente. A meno che non fosse a livello di pettegolezzo, sia chiaro. Perché lì, allora, fa ridere. Mica come in queste storie, la fine delle quali non si vede mai.
Trovato il numero civico, sistemai la macchina al solito posto. Da quando ci facevo caso, avevo scoperto che gli handicappati sono molto ben distribuiti in città.
Il portiere era una persona di piccola statura. In divisa, manifestava quanto il palazzo volesse essere signorile e distinto, con marmi e vetri, ottoni e tappeti che, nonostante la pioggia, mascheravano in malo modo il fatto che fosse una delle tante cooperative fasulle. Cooperative sociali all’inizio, ma poi tutti pronti a guadagnarci qualche soldino.
Non avevo la più pallida idea nemmeno di come pormi. Non ero mai stato bravo a inventare balle nemmeno quando dovevo coprirmi con mia madre. Figurarsi adesso che la cosa era una semplice formalità.
Spacciandoci per dei figli di un lontano cugino, avevamo chiesto informazioni sul Turri. Geneticamente, si sa, i portinai sono inclini alla chiacchiera. Soprattutto quelli dei palazzi bene, che sono saturi di informazioni su una certa fetta di società e non sanno nemmeno loro come fanno a trattenersi.
Si pizzicava i baffi, nell’angolo di destra, contento di trovarsi ad essere il protagonista di un dramma non cercato. Parlava con un accento pugliese, con quelle inflessioni dialettofone che per molti restano solo suoni molto aperti, ma senza un significato.
Però capimmo tutto. Dai quattro “che c’amma fa’?” fino ai più difficili giri di parole per dirci che il nostro Turri Alessandro era morto in un incidente d’auto circa quindici anni prima. Un colpo di sonno, un malessere, non ricordava. Parlava come un verbale redatto dalla stradale, come se anziché saperlo per passaparola, fosse venuto a conoscenza dei dettagli direttamente dai documenti.
E allora, rifacemmo tutta la circonvallazione, con i suoi saliscendi. Fino alla svolta in viale Certosa, con i suoi alberi e i suoi semafori, fino a Musocco.
Emily prese la lettera dal cruscotto, batteva i piedi sul pavimento dell’auto nervosamente. Ero consapevole del non perfetto funzionamento dell’impianto di riscaldamento, e i piedi le si stavano congelando. La capivo. Però era molto più facile comprendere le differenze tecnologiche che crescono in trent’anni, da parte sua. Poteva anche smettere. Non tanto per il rumore, quanto perché temevo danni irreversibili per il pianale stesso.
Tuttavia, non mi sembrava il caso di farglielo notare. Così come non mi sembrava nemmeno il caso di andare in un cimitero, soprattutto in inverno, col cielo che si perde nell’asfalto, così come i tramonti si affogano nel mare e non se ne distingue il limitare.
Ma se al mare, un effetto ottico del genere può essere costellato di mille, piacevoli e romantici aggettivi, in città diventa quasi macabro. Prescindendo poi dalla folle idea di cercare la tomba del Turri e leggere alla lapide la lettera del vecchio amico morto. Se lei voleva farlo, per semplice influenza cinematografica o per chissà quale motivo morale, io non l’avrei seguita.
Stavo in macchina, il motore spento e gli aghi del tachimetro in posizione di riposo, entrambi, e fumavo lasciando appena aperto il deflettore. Guardavo il cancello d’ingresso e le strade che si riempivano sempre più di luci e di lamiere. Stavano arrivando di corsa le sei, gli uffici avevano già chiuso, e gli ultimi ritardatari si stavano affrettando a finire ciò che era rimasto. Come fosse una merenda obbligatoria per tornare a giocare a pallone con gli amici.
Emily ci stava mettendo un sacco di tempo. Ero stato seduto troppo tempo. Mi stavano venendo le piaghe da decubito. Forse sarebbe stato meglio uscire, giusto per stendere le gambe.
Appoggiato alla lamiera, immediatamente fui affiancato da un poveraccio che chiedeva l’elemosina. Spostando verso di me le dita ormai blu, sibilò appena la richiesta di una sigaretta. Come unica fonte di riscaldamento non c’è male, pensai.
Accese, appoggiò a sua volta la schiena sull’Alfa.
“Cercate anche voi il Turri?” domandò dopo una prima boccata.
“E lei come fa a saperlo?”
Strinse il filtro forte tra le labbra, fino a schiacciarlo. Era un gesto che ricollegavo allo stadio, alle tifoserie delle squadre che stanno per perdere una coppa.
“Ho sentito la sua donna chiederlo in guardiola”
“E allora? Si mette ad origliare? E poi non è la mia donna”
“Cambia poco. Sono anni che sto qui al Maggiore, e mi chiedo come mai solo adesso ci sia gente che chiede del Turri. In tanti anni, nemmeno un fiore…”
“Magari ci siamo ricordati di lui solo adesso”. Mi stavo innervosendo, ero acido.
“Voi due, forse. Ma i tipi che sono venuti un mesetto fa erano poliziotti”, mi rispose come se nulla fosse. Aveva finito la sigaretta, stava lanciando via il filtro, con un gesto di chi lo sa far volare lontano. Gli afferrai il braccio, e il mozzicone mi cadde quasi sui pantaloni. Per poco non avrei rischiato di prendere fuoco.
“Adesso mi dice che cosa sa. Chi era il Turri, come è morto eccetera.”
“Facile, così. Io non mangio, figuriamoci se parlo.”
“Ok, adesso ce ne andiamo a cena e vediamo se riesce a trovare qualche briciolo di forza per parlare.”
Lo feci sedere davanti, accanto a me. Emily era tornata con la busta ancora in mano, il volto con due righe che scendevano dagli occhi fino alla mandibola. Aveva pianto, ma non volevo sapere il perché. Se me lo avesse detto, bene. Altrimenti, ciccia. Robe da donne che a stento avrei capito.
Adesso c’erano ben altre cose di cui occuparsi. Avevo trovato una pista e non me la sarei lasciata scappare per nessun motivo al mondo.
A pochi passi dall’auto, notò che al suo posto c’era questo tizio. Il suo sguardo fu abbastanza loquace. Mi restituì la lettera, che riposi nuovamente nel porta documenti dell’Alfa.
“Stai dietro e controlla questo qui mentre guido. Andiamo a cena, poi ti spiego”, le dissi da finestrino aperto, allungando fuori la testa dal guscio di tartaruga di lamiera.
Le porsi anche un fazzoletto di carta. Non mi sembrava decoroso che si mostrasse tanto vulnerabile.
Sarebbe stato faticoso. Molto.

giovedì 14 febbraio 2008

Dieci

Nel capitolo precedente: ma pensa te. Mi dice che ha ricevuto una lettera dal signor Anselmo.
Il quale, all'anagrafe: morto.
Mah.
E gli diceva pure di portare una lettera, un'altra, a un signore, il Turri.
Che chissà chi cazzo è.
Ma insomma.
Meno male che la comare del bar di fronte lo ha scambiato per un Carabiniere.
Altrimenti vai a sapere che cosa andava a raccontarmi.
Ma sì, va, volentieri.
Due minuti, fumiamo va.
Almeno, le cose saranno più veloci.
Almeno, per adesso.
Almeno credo.


Lasciai tutto com’era, non pagai né salutai. La Comare non disse niente. Da quando facevo parte dell’Arma, aveva iniziato a temermi. E il timore è la base del rispetto, mi aveva detto la professoressa di greco e latino il primo giorno del liceo.
Arrivai e, come al solito, mi preparai un altro caffé, con la sambuca e la sigaretta sul piattino. Certe abitudini sono salutari, e non vanno cambiate. Aveva ragione su questo punto il signor Anselmo. Un uomo aveva bisogno dei suoi ritmi e delle sue certezze. Spensi la televisione e accesi la radio. Per evitare l’anarchia, lì dentro avrei preso io delle decisioni. Avevo sempre ammirato i grandi condottieri, Stalin in testa, e da loro dovevo pur imparato qualcosa. Non potevo prendere a picconate la televisione, come era stato fatto con Trockji, però potevo cercare un modo più moderno, più consono alle mie esigenze, seppur non tanto radicale. Avrei manomesso il cavo dell’antenna. E finché un tecnico televisivo non fosse andato a letto con una signorina, nessuno avrebbe contestato lo strapotere della radio.
Suonava la sigla del GR1 delle 13.00, quando il campanello suonò e i passi di Emily si avvicinarono al bancone. Li si riconosceva perché era una delle poche donne, se non l’unica, che camminava come un metronomo. Batteva in quattro quarti, certi giorni, come se stesse tenendo il tempo per una canzone raggae che solo lei conosceva.
In pochi secondi, con i gomiti appoggiati al bancone, le sue labbra a fissarmi immobili, le spiegai tutto. Sorrise spostando il peso sul piede sinistro.
“Andiamo da questo Alessandro Turri. Stasera stessa” fu la sola cosa che mi disse, prima di prendere le stanze con un cliente abituale.
“Non hai capito”, le risposi sperando che mi sentisse, “tu non ci vieni. Te l’ho detto perché lui…”
Ormai era lontana e già presa dai suoi impegni.
“Ma va’ via, vai…”, sibilai
Qualsiasi cosa avessi potuto dire, sapevo bene che sarebbe stata inutile. Le labbra mute delle donne non lasciano alcuno spazio alla discussione dialettica.

giovedì 7 febbraio 2008

Nove

Nel capitolo precedente: questo deve essere per forza un fissato.
Un fissato delle cose. Uno di quelli che, le fissazioni, ce le hanno nel sangue.
E la macchina, e va bene.
E la storia del bar, e va bene.
E la storia delle "signorine", e va bene.
Ma questa del vecchio morto apparente, per carità. E dire che ci crede! E come lui, ci ha creduto pure Emily!
Secondo me, lei, diciamo che aveva mire più lunghe.
Ma a pensare male, si fa peccato.
Però...
Però io, un po' mi sto stancando.
Parla sempre lui.
Adesso lo interrompo. E basta, basta.
Parliamo dell'Inter?
No. Inizia di nuovo.
Uff.


Ero contento del posto in cui abitavo. Un complesso di quattro condomini che non era né troppo in centro né troppo fuori. In venti minuti, si poteva arrivare in qualsiasi punto di Milano, paradossalmente.
I vari palazzi erano collegati tra loro da una sorta di labirinto in porfido. Era facile riuscire ad orientarsi, e questo poteva danneggiare i ladri. Però, una volta dentro, era anche difficile uscirne.
Tra condomini, qualora ci si incontrasse all’ingresso o all’uscita, ci si salutava con una certa confidenza, ma se ci si vedeva fuori, era già tanto un cenno del capo.
Secondo la leggenda, i milanesi non si danno troppo gli uni agli altri, ma quello che la gente non sa è che, dentro ai saluti e alle teste declinate, c’è tutto l’affetto e l’essere considerati che serve.
Di certo, il lusso non mancava al mio palazzo. Un centinaio di passi e c’era il supermercato, piccolo certo, ma con tutte le cose che potevano servire, dalle trappole per scarafaggi alle olive ripiene di peperoni. Poco più avanti stava la cartoleria, un po’ cara forse, ma in caso di emergenza era sempre presente. Il giornalaio stava alla distanza di un grido e, privilegio di pochi, dal portone lo si sarebbe potuto salutare, mentre il tabaccaio era già pronto con le sigarette.
Non mancava proprio niente.
Però mi faceva proprio uscire di testa il fatto che non ci abitasse nemmeno un handicappato. Mi irritava anche solo l’idea di dover cercare parcheggio. Una rabbia che nasceva dalla routine della posta, benché fosse un dovere che mi veniva in mente solo in casi eccezionali. Non avevo nessuno che mi scrivesse e, bollette e resoconti bancari, non erano la mia passione. Eppure, ero costretto a passare in portineria. Allora mi toccava lasciare la macchina in balìa della curva che sovrastava l’ingresso e ritirare ciò che dovevo. Per fortuna lo facevo pochissime volte, solo quando il portinaio mi citofonava e mi diceva di svuotare la casella, “ché dentro la roba non riesco più a farcela entrare!”
E pensai che, una volta tanto, si poteva anche evitare di fare scomodare quel pover’uomo.
Nonostante fosse pagato più che lautamente per il compito che sbrigava.
Non importava. Un minuto sarebbe bastato e la temperatura del motore dell’Alfa non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Fu così che scoprii che, nel mucchio di carta variamente colorata, tra il pollice e le altre dita, c’era una lettera del signor Anselmo. Per me.
Un morto che ti scrive. Per lo meno è strano. Anche se, lì per lì, mica mi diede fastidio.


Le strade delle grandi città, inondate di auto e pioggia, sono simili a grandi arterie umane intasate dal colesterolo. Le macchine, in fila come tanti bei soldatini, rinchiudono in sé migliaia di pensieri che non si possono immaginare, tra canzoni di innamorati, o a canzoni e basta. Un ragazzo pensava che la radio, sarebbe stato meglio che il padre la comprasse sul serio, piuttosto che continuare a canticchiare motivi rimasti a metà nella mente. Una donna si sfiorava con l’indice il labbro superiore, convinta in questo modo di ricucire una sbavatura del rossetto. Una signora anziana, con un vecchio cane come passeggero, borbottava di quando quella volta in cui, quelle strade, erano un luogo in cui passeggiare la domenica pomeriggio.
Camminavo passo dopo passo, nella convinzione che dopo tanti anni la macchina mia, almeno una su un milione, fosse il caso di lasciarla parcheggiata nel box. Di chilometri ne aveva fatti, e tanti, quindi era cosa buona e giusta darle una tregua.
Era lo stesso che farsi la doccia l’indomani mattina piuttosto che la sera, convinti che in questa maniera si sarà puliti per un giorno di più.
Fino al mattino precedente non mi sarebbe certo venuta in mente una cosa del genere, ma non so perché mi svegliai con quell’idea. Non c’era niente di programmatico, sia chiaro. Altro che ecologisti e balle varie.
E fu anche un’idea che non si sarebbe più affacciata, visto che avevo scelto la mattina più piovosa dell’anno per scegliere di muovermi a piedi. E, grazie al vento, non riuscivo nemmeno ad accendere la prima sigaretta della giornata.
“Forse sarebbe il caso di smettere anche con queste” mi sussurrai, come se dicendolo ad alta voce avesse più peso. Ma già è troppo difficile cambiare un’abitudine sola, figuriamoci due. Contemporaneamente, poi.
Schivavo le pozzanghere e schivavo i passanti che si muovevano sui marciapiedi in ordine sparso. Avei voluto rituffarmi nella lettera del signor Anselmo, ma il fatto che le pozze non mi permettessero di avere una camminata coerente con qualsiasi principio, annullava qualsiasi intenzione.
Ci misi meno tempo del previsto ad arrivare al lavoro. Il posto per gli handicappati era libero. D’altra parte, io non lo avevo nemmeno mai visto occupato se non dalla mia Alfetta gialla.
Che non ci fossero handicappati nel palazzo sopra il bar, era evidente. Forse, lo spazio, l’avevano fatto mettere per sentirsi un po’ più in pace con il mondo. Come quelli che si preoccupano delle mille guerre che ci sono e adottano un bambino negro, una famiglia di terremotati nell’Indocina, una foca nana e un koala australiano. E poi sono gli stessi che, prima si fanno lavare il vetro al semaforo, e poi gridano al marocchino di trovarsi un lavoro. Probabilmente, sono così carogne perché la loro bontà la mettono tutta nelle azioni a distanza.
Fatto sta che ero in anticipo e io, di lavorare gratis, non ne avevo la minima intenzione. Fui costretto a rifugiarmi nel bar della Comare. Speravo non mi riconoscesse, almeno come amico del signor Anselmo. Le avrei dovuto dare la notizia della morte? In questi casi può succedere che uno si redime e si pente di una vita di peccato. Ma qualora questo non fosse successo, le sarei saltato al collo.
Entrai e mi sedetti, le spalle al banco. Volevo poter guardare fuori, ma soprattutto non volevo poter vedere lei.
“Lei è quel Carabiniere in borghese, vero?” si affrettò a portarmi un caffé. E scoprii questa piccola verità: benché lo stipendio dei Carabinieri fosse, a loro dire, basso, per loro molte cose non era necessario pagarle. Di conseguenza, il loro stipendio diventava una cifra considerevole. Per lo meno, aveva un buon potere d’acquisto, diciamo.
Comunque, restai al gioco. Poteva venirmi utile. Feci un cenno con la testa. Mi lasciò il caffé e andò via. Non le diedi la soddisfazione di un sorriso o di un grazie, volevo che mi temesse.
Aprii ancora la lettera del signor Anselmo e la riguardai. Scriveva a penna blu, punta sottile, in caratteri stampatello minuscolo, ciascuno leggermente staccato dall’altro. Sembrava fosse una sorta di cirillico europeo. Divertente, tutto sommato. Chissà come, chissà quando, aveva imparato a scrivere.
Nella pagina singola, fitta che mi aveva scritto, il signor Anselmo si diceva contento di avermi incontrato. Si era legato a me e sapeva che di me si poteva fidare.
Certo, pensai ridendo. Ormai ero un Carabiniere in borghese.
Mi diceva che stava bene e che era anche contento io lo stessi. Anche se ultimamente mi vedeva leggermente dimagrito. E mi voleva molto bene. Si sarebbe allontanato per un tempo che definiva considerevole. Non sapeva quando ci saremmo rivisti, ma un po’ di tempo sarebbe passato di certo. Per un motivo che non mi poteva spiegare, inoltre, aveva inserito un’altra lettera all’interno della busta che aveva spedito a me. Era per un certo Alessandro Turri, un amico di vecchia data, e mi chiedeva se gentilmente potevo portargliela io. Mi diceva che avrei dovuto farlo a mano, tanto abitava anche lui a Milano.
Nulla più. Aggiungeva solo che avrei dovuto stare veramente attento ad Emily.
Soprattutto sul lungo termine, diceva. Chissà perché, poi. Non importava.
Mi prendevo già abbastanza cura di Emily. E non avevo mai amato strafare.
Presi in mano la lettera di Alessandro Turri, via Novara. Fortuna sapevo dov’era. Se avessi anche dovuto sbattermi con cartine e mica cartine, la voglia mi sarebbe passata su due piedi.
Però. Una serie di punti mi lasciavano per lo meno perplesso.
Come faceva a sapere che stavo bene nonostante fossi dimagrito. Io non lo avevo incontrato dal giorno in cui era andato in pensione. Se mi aveva incontrato senza salutarmi, non c’erano parole per giustificarmi. Sempre meglio però di un guardone. E poi la lettera al Turri. Non poteva spedirgliela lui? O portargliela lui, almeno. Per cosa mi aveva preso, un Pony Express? O forse, da uomo senza figli, gli aveva parlato di me e voleva farmi conoscere ad un suo amico. Possibile, anche se non probabile. Ma non poteva svegliarsi prima? Un incontro normale, no?
E anche il viaggio, mi lasciava perplesso. Dove doveva andare? Non importa. Ma il lasso di tempo considerevole, letto così, tuttavia mi fece sorridere: era morto. Il tempo doveva essere considerevole per forza!
Mi voleva bene e chissà che cosa c’era nella lettera al Turri. Magari era gay. E io, da solo, non me ne ero nemmeno accorto. Non importava, tanto con me non ci aveva provato. O sì?
Nemmeno questo era importante. Mi stavo incazzando.

venerdì 1 febbraio 2008

Otto

Nel capitolo precedente: veramente. Questo qui, veramente, sembra un pazzo. Va bene che ci resti male. Va bene che ti fa anche soffrire. Sai, un amico che sparisce, poi. Senza nemmeno riuscire a salutarlo.
Però, mi sembra che sia ostinato. Troppo. E poi girare a caso, alla ricerca di chissà che cosa.
Sembra quasi la coda della lucertola quando non è più legata al corpo. Che si agita scomposta tra le falangette dell'indice e del pollice.
Però, che strano. Più va avanti e più anche a me sembra che qualcosa manchi. Come quella signora, quella del bar di fronte.
Chè l'Anselmo non era altro che un bugiardo.
Mah.
Non lo so.
Speriamo solo che non tratti male quella Emily lì.
Deve essere proprio bella, quella Emily lì.



Glielo dissi una mattina, in cui nemmeno trovai il tempo per salutarla.
“Emily. Forse hai ragione. Il signor Anselmo, intendo. C’è qualcosa che non capisco”.
Ci restò di sasso. Forse non se lo aspettava, nei suoi occhi spalancati. Forse nemmeno lei ne voleva la conferma e mi usava da contraltare alle sue illazioni da dodicenne. Certo, lo sapevo anche io, era facile da pensare a un complotto da soli, la televisione ce lo aveva insegnato da dio. Ma se due persone fanno lo stesso sogno, è naturale che si preoccupino.
Avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Però prima tornai all’appartamento che, benché vuoto, nascondeva ancora qualche curiosità. Come, ad esempio, quella pila di fogli che tutti hanno, sicuramente, di lettere non spedite.
In macchina, senza riuscire a superare i 50 chilometri l’ora e senza sapere se mettere la terza o meno, mi chiesi se effettivamente cominciavo a credere a quella storia, o se solo era un modo per non accettare una morte tanto banale. Che, in effetti, un giorno sarebbe potuta capitare anche a me.
La signora anziana che gli abitava accanto oramai conosceva il mio volto e non mi fece nessuna osservazione quando entrai. Mi considerava un poveraccio che lavorava col corpo e che dalla mente non avrebbe ottenuto niente più che una fatica di braccia. Mi salutò con un ondeggiamento riverenziale della veste. Nel casino generale delle pile di giornali, abiti e carte, riposizionai la poltrona nel luogo originale e mi guardai attorno.
Avevamo fatto un ottimo lavoro, io ed Emily. L’appartamento era irriconoscibile. Per fortuna, lei era una maniaca delle fotografie e ne aveva fatte a bizzeffe. Gliele avrei chieste l’indomani. Bisognava riportare tutto nelle originarie posizioni. Lì, e solo allora, avrei trovato o meno la chiave della situazione. Magari non c’era niente da scoprire, ma coi piedi fissati nella polvere, questo sfizio da investigatore volevo togliermelo.

Emily mi portò le foto dopo circa una settimana. Andammo insieme alla casa di ringhiera del signor Anselmo e le auto parcheggiate lungo la strada non immaginavano nemmeno quale attesa per una qualche scoperta mi rovinava dentro.
Sembravano stupite, nei loro musi lunghi, di trovarmi ancora lì.
Sul fondo della stanza, con le gambe allacciate tra loro in modo quasi innaturale, Emily mi osservava. Mi agitavo per riprodurre fedelmente l’ambientazione proposta dalle foto. Ci misi un po’ e, asciugandomi una goccia di sudore che fastidiosamente pendeva sulla fronte, mi misi accanto a lei soddisfatto.
“E ora?” mi domandò sorridendo appena, come se fossi un idiota.
“E ora aspettiamo di trovare qualcosa”.
“Se qualcosa la cerchi, la trovi. Se c’è però. Se no, puoi attaccarti al tram”.
“Emily! Un po’ più di fiducia…”. Avevo capito che per lei, i sospetti e tutto il resto, erano solo una specie di gioco. Ma ora che bisognava giocare, veniva fuori che l’anima da dura, l’aveva lasciata in chissà che abito di carnevale.
La sera stava tornando e le ombre si allungavano su tutto il pavimento, scandendo come una meridiana le righe che dividevano le piastrelle. Un altro buco nell’acqua, non potevo sopportarlo. Per lo meno, a mio vantaggio, mi avrebbe distrutto il castello di illazioni che mi ero costruito.
E infatti fu così, carta dopo carta, mano dopo mano, cercavo di ridisegnare quel mondo, fino a che non si avvertirono i primi gorgoglii degli stomaci. Cosa più che naturale, è ovvio. Ma uno stomaco che gorgoglia, dà sempre un po’ fastidio, mi aveva detto una volta il signor Anselmo, citando chissà che cosa, chissà di chi.
Mi sollevai dalla poltrona che per un pomeriggio si era trasformata in una sorta di punto di vedetta.
Emily si alzò, anche lei piuttosto perplessa, convinta di aver buttato via un intero giorno libero.
Mi sentivo in colpa per questo. Anche perché ci sarebbe voluto ancora del tempo per riammassare tutto nell’angolo. In fondo, un giorno intero di riposo non lo era solo per lei, ma anche per quelle parti del corpo che stressate a lungo, si rovinano.
Decisi che sarebbe finita lì, basta. Presi la chiavi dalla mensola quando ormai non ci si vedeva più e chiudemmo la porta, lasciandole dietro un lavoro che era stato già fatto e che si sarebbe dovuto fare daccapo.
Scendendo le scale costruite attorno a un ascensore coi cavi esposti, di quelli che mettono paura ad ogni sussulto, pensai che una volta a casa, forse era il caso di ritirare la posta. Intasata, come per tutti, dalle locandine pubblicitarie di scarpe e attrezzi da trekking. E mentre inserivo la chiave nel cruscotto dell’Alfa, pensai che il signor Anselmo aveva avuto un infarto come tanti. E che l’unica cosa di cui bisognava dispiacersi, era che non si era goduto nemmeno la pensione.
Sarei tornato a prendere la Cinquecento, poteva tornarmi utile, quello sì. In fondo, l’Alfa consumava un po’ troppo per quello che era il mio salario, e un’utilitaria piccola ed economica poteva farmi comodo. Ma l’appartamento, quello l’avrei fatto liberare da degli operai. Non avevo più intenzione di rimetterci piede.

giovedì 24 gennaio 2008

Sette

Nel capitolo precedente: io lo sapevo che poi il vecchio moriva. I vecchi muoiono tutti. Prima o poi. Ci si deve preparare. Ma lui, per me, non era pronto. Lo so.
Soprattutto se poi uno si ritrova a parlare con uno sconosciuto in un bar. Di notte. Da solo.
Certo, figurati se non moriva.
E anche i dubbi. Hai voglia a parlare di dubbi. Uno muore e basta. E se hai duecento anni, è il ciclo della vita.
Mica è omicidio. Non ha senso fasciarsi la testa.
E poi gli è già andata di culo che gli ha lasciato la 500.
Deve farsi due sbatti, pulire e buttare via un po' di roba, certo.
Ma tanto, mica è solo. C'è Emily.

Che poi. Tra un po' mi dice che si sono pure innamorati... teneri.



Emily mi seguiva con lo sguardo preparare caffé e bicchieri di Coca Cola per le sue colleghe. Cominciavo ad essere saturo di quei gesti, non rivolgevo la parola più a nessuno. Mi sentivo immerso in una rete che nemmeno i pescatori potevano immaginare. D’altronde, la pesca a strascico era vietata.
I clienti sfilavano come passanti su un marciapiede. Anonimi come poche ombre sanno essere, ma come è giusto che quelli che vanno con le puttane siano. Non riuscivo a distogliermi dall’idea che il signor Anselmo fosse stato ucciso. Non ne avevo parlato più di tanto con Emily, visto che lei era convinta di una cosa ben precisa, ma io ero piuttosto scettico.
Che cazzo, mi dicevo. Già i vecchi non interessano a nessuno. Il governatore di una banca, ucciderlo avrebbe un minimo di peso. Ma un barista, che per giunta lavorava in un locale ad ore, che senso ha. Come schiacciare una formica in un formicaio. Figurati se ti cambia la vita.
E nemmeno i ladri, non era stato trafugato niente. Dovevo accettare la realtà. Sono cose che succedono, ai vecchi.
La vetrina si appannava, cominciava a fare freddo. Quelli che vendevano le caldarroste si accalcavano lungo i marciapiedi del centro e i passanti, delle loro caldarroste, non sapevano che farsene. Faceva freddo, e piuttosto la grappa. Almeno, il calore, avevi la minima idea di percepirlo. Lo avevano capito i montanari, perché non li avevano imitati, i milanesi?
Come al solito nel bar, un tizio che lavorava lì vicino, ci portò i panini. Noi li facevamo, certo, ma solo per i clienti. Era necessaria roba che ridesse la carica, mica i condimenti leggeri che volevano le signorine. Pomodoro e mozzarella, bresaola e rucola contro speck e brie, cotoletta alla milanese e fontina. Dovevano tenersi in forma, loro, nonostante non fossero soubrette, anzi. Certo, entrambe con il corpo ci lavoravano, ma qui anche il corpo lavorava con loro. Quindi un minimo di ritegno, ci voleva. Un do ut des in piena regola.
Uscii, mi sentivo a disagio tra morsi strappati e mascelle contratte. L’Alfetta sembrava sorridesse, con i fari tondi e lo scudetto che pareva in naso, il colore giallo perfettamente intonato alle strisce del parcheggio riservato ai portatori di handicap. In certe cose, lo stile si nota, pensai.
L’inverno si faceva strada a larghi passi e, mentre fumavo, le dita mi si irrigidirono. Fino a diventare quasi viola, ma le osservavo senza nasconderle nel calore nemmeno un po’. Una sigaretta all’aperto è sempre un’altra cosa.
Forse, più probabilmente, volevo solo evitare lo sguardo di Emily. Non avevo la minima voglia di intricarmi in difficili scambi di battute sul signor Anselmo. Lei sicuramente mi avrebbe fatto altre domande, mentre l’unica cosa che poteva interessarmi erano le forme antiche della ‘nipote’ del vecchio. Sbuffai fuori l’ultimo tiro e con lo sguardo attraversai la strada. Cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia davanti ai fanali accesi delle auto che scorrevano silenziose nelle due corsie a senso alternato. Si piegavano sotto i coni di luce come fili d’erba in un prato. Ripensai all’ultimo giorno del signor Anselmo e di come poi le cose fossero cambiate.
Vidi il bar di fronte e la cassiera seduta alla cassa. Guardava il calendario e forse avrebbe potuto darmi una mano. Almeno spiegarmi la storia del caffé.


Non avrei mai saputo come convincerla se non fosse stato per Lo Bianco, un appuntato dei Carabinieri che ogni tanto chiedeva del vino bianco al bancone. Magari passava per una sbirciatina, ma quando chiedeva una spruzzata di Campari sapevamo entrambi a cosa si riferiva. E una signorina, allora, doveva sacrificarsi. Una marchetta per il quieto vivere, dicevano ai tavoli.
Mi doveva il favore di essergli complice agli occhi dell’Arma, non mi avrebbe negato l’onore di accompagnarlo dalla Comare. Avevo cominciato a chiamare così la signora di cui il signor Anselmo si era innamorato, perché mi sembrava una persona di famiglia ma dalla quale dubitare. Non perché ce ne fosse il motivo, certo, ma perché per colpa sua il signor Anselmo era stato male.
Non discutevo sulle ragioni, ognuno avrà avuto le sue, ma in quel caso giustificavo persino il tifoso più violento. Quindi, sempre e comunque dalla mia parte.
Fatto sta che Lo Bianco mi aiutò volentieri. A patto che i prossimi due Campari spruzzati li offrissi io. Aveva un ghigno da faina sul volto, e una mano in tasca a giocare con una sigaretta. Come se già pregustasse il momento successivo alla riscossione.
Volgare, cazzo, mi venne da pensare.
La signora, o ancora signorina più probabilmente, non risparmiò parole. Appena vide la divisa, si lasciò andare in confidenze che non avrebbe fatto nemmeno alle amiche.
Le caramelle vicino alla cassa abbondavano e, dal momento che mi sentivo forte di me più che mai, ne approfittai a iosa. Gratuitamente, ovvio. L’essere con un Carabiniere mi dava un’autorità non da poco.
Avevamo simulato la tipica situazione da poliziesco americano. Lui quello buono, che parla e che cerca di mettere a suo agio l’interrogato. Io quello cattivo, che gira attorno a entrambi e che sta zitto. Con uno sguardo che la metà basta. Ma dopo poco smisi. Anche perché, a stare con la faccia corrugata il più possibile, mi si stavano atrofizzando i muscoli del volto. Cominciavano a farmi male.
La sedia su cui lei era seduta, con noi due in piedi di fronte, aveva un lieve difetto sullo schienale. La pelle si stava staccando, forse per le troppe schiene cui vi si erano poggiate, forse per i troppi cowboy che l’avevano usata al contrario, sbocconcellandosi le unghie.
Ci disse tutto. Rispose a qualsiasi domanda, ma la maggior parte le faceva Lo Bianco ed erano perfettamente inutili. Aveva accumulato pettegolezzi sulla vita passata della donna e del quartiere, più che informazioni.
Fu alla fine che le chiesi del caffé macinato. Mi rispose che non ne sapeva niente, ma ora che ci pensava, le pareva di ricordare che era un odore che il signor Anselmo aveva spesso addosso. Però purtroppo non sapeva come giustificarlo.
“E poi io, il caffé, non l’ho mai potuto sopportare! Nemmeno l’odore! Ma l’amavo…”
E ci disse anche che, secondo lei, il signor Anselmo era sempre stato un gran bugiardo. Non proprio in questi termini.
“Piano con le parole” le intimai. Mi sentivo come uno cui insultano Bearzot dopo il Mondiale dell’86. Avevamo vinto quattro anni prima, dopo tutto. Non si poteva sputare nel piatto in cui si mangia. Inoltre, quello era il mondiale di Maradona e della mano di Dio. E contro Dio, nessuno avrebbe avuto una sola chance.
Però una cosa di importante era venuta fuori, tra i tavoli che sapevano di plastica e il pavimento che sembrava di finto pavè. Il signor Anselmo le nascondeva qualcosa. e anche a me.
“Facile così” dissi a Lo Bianco, mentre una Cinquecento bianca ci passava davanti. Non credevo che ce ne fossero ancora così tante, in giro. Magari, nei paesi dell’Est le producevano ancora.
“È come se io ti dicessi che, forse, uno di quei giovani seduti al parco prima o poi si fumerà una canna”
Lo Bianco fece un sorriso: “Limitati a fare il barista. Lo specialista sono io”.
“Certo”. Era fin troppo facile fare il giustiziere duro e puro, e farsi passare i caffé corretti gratis.
Anche se questo era ancora da vedere.
Era stato un buco nell’acqua. La Comare aveva sì parlato, ma solo dei suoi pianti e isterismi di anni e anni prima. Non aveva aggiunto nulla di più di quanto il signor Anselmo mi avesse detto già. Eccetto l’odore del caffé. Ma era una falla da poco conto.
Un grosso, enorme, noiosissimo buco nell’acqua. Con anche la piaga di Lo Bianco, per giunta.
E fu per questo che i giorni successivi furono giorni di fuoco. Se ne accorsero tutti. Restringevo anche i caffé ristretti. Ero nervoso e teso. Non mi si poteva dire niente. Neppure che Terence Hill era gay per ridere, e me la prendevo come se fosse una questione personale.
Emily mi guardava da lontano e, dai suoi occhi, vedevo che non mi riconosceva. Sembrava allibita. Una studentessa che guarda con aria attonita una sfuriata fuori luogo di un’insegnante.
Eppure mi aveva visto e conosciuto come una persona distaccata, tra i bicchieri che erano di grandezza diversa e i poster che non richiamavano nessun elemento dell’ambiente circostante.
Dove ero finito? Non lo sapevo e avevo cominciato a fumare tenendo la sigaretta tra i denti, come quei vecchi anarchici che hanno sulla pelle la strage di piazza Fontana.

giovedì 17 gennaio 2008

Sei

Nel capitolo precedente: parla a spizzichi e bocconi. Come fosse solo. E poi fuma e sorseggia.
Un bel casino stargli dietro, a sto qui. Nel senso. Prima mi inviti a bere qualcosa, e va bene.
Poi decidi di raccontarmi qualcosa, e va bene.
E io decido pure di ascoltarti, e questo va benissimo.
Ma quando ti ritrovi a parlare da solo, be', questo non va tanto bene.
Anche perché io mica posso perdere tutta la notte a sentire un pazzo sclerotico che ricerca chissà che cosa nei suoi ricordi!
O no?


Lo studio del notaio era abbastanza accogliente. Poltrone di finta pelle, copie di quadri famosi alle pareti, finte bottiglie di alcolici. Tè nelle bottiglie di whisky.
Mi sentivo in imbarazzo per lui. Certo, faceva scena, ma dedussi che i clienti dello studio fossero degli imbecilli. O per lo meno che non trattasse con clienti che i bar li frequentavano spesso.
Ci accomodammo sulle sedie e il notaio cominciò a parlare. Con accento meridionale.
Era uno di quelli allevati dalla DC e portati alla ricchezza dal nord. E che, sentendosi arrivati, non avrebbero esitato un attimo a chiamare i propri compaesani terroni, se li avesse incontrati per strada.
“Certamente sarete a conoscenza della morte del signor Anselmo Mezzaspada”
No, non lo eravamo. E probabilmente le nostre facce lo esprimevano. Tanto più che Emily non lo conosceva nemmeno. Piegò le labbra verso il basso, giudicandoci dei parenti degeneri. Non sapere nemmeno che un parente è morto, che sfregio.
“Comunque. Non è questo il punto. Il signor Mezzaspada è morto circa un mesetto fa, ci abbiamo messo un po’ a trovarla. Tanto è vero che poi siamo finiti al bar. Oggi verrà data la lettura del testamento. Lei, e immagino a questo punto la sua compagna, siete gli unici cui il Mezzaspada ha lasciato i suoi averi”.
“Ok. Mi dispiace per il signor Anselmo. Primo, lei non è la mia compagna”, indicando Emily, “Due, la mia famiglia è un altro discorso. E poi non vedo perché abbia lasciato tutto a me. Non aveva parenti o amici?”
Mi stavo arrabbiando. Mi sentivo in una sitcom americana. La poltrona di finta pelle nera iniziava a darmi fastidio. La tela dei jeans non scivolava e io non riuscivo a mettermi a mio agio. O forse erano quelle due enormi facce di legno africano dietro la scrivania che mi mettevano in soggezione. Sembrava uno studio arredato in maniera assolutamente casuale. E dire che, uno che fa il notaio, i soldi per prendersi un architetto dovrebbe averceli. Che indecenza.
Fatto sta che a nessuno importava niente di ciò che c’era dietro al testamento, parentele o amicizie o altre sciocchezze. Anche se fossi stato uno sconosciuto, nel testamento c’era il mio nome e io mi dovevo prendere quello che c’era nella casa del signor Anselmo. Punto e basta, senza perdere altro tempo a discutere. Ed Emily già pensava che saremmo diventati ricchi, di una ricchezza accumulata per anni e mai spesa.
Mi furono consegnate in mano le chiavi di un appartamento in centro, zona Porta Romana o giù di lì. Sicuramente in una di quelle via lastricate di pavè che poco fanno bene alle sospensioni di auto vecchia di trenta anni.


Il signor Anselmo, poverino, non aveva quasi niente. L’unica sua ricchezza era un terzo di un magazzino comprato anni prima con due amici. Dei quali era rimasto in vita soltanto un certo Enrico De Nocciola. Tramite il notaio, mi era giunta la proposta di vendergli la mia parte di immobile, i documenti erano già pronti e i soldi in contanti stesi accanto a una penna.
Con cui firmai. Di un ex deposito nemmeno intero, in zona Navigli, non sapevo che farmene e, piuttosto che pagare tasse su una cosa di cui non mi importava affatto, preferivo far felice uno sconosciuto. Anche perché immaginavo che volesse farci qualcosa, con quel magazzino. Mi sembrava un atto di carità, e intascai immediatamente quei soldi.
In casa del signor Anselmo, un piccolo due locali in una vecchia casa a ringhiera, non c’era poi molto di interessante. Solo la porta tanto ricoperta da escrementi di piccioni, da credere che fossero chili. Rappresentava forse una minaccia, oppure la pigrizia di chi non ha molta voglia di pulire.
Tutto era in ordine, all’interno, curato con fare certosino. Solo la polvere di un mesetto buono adagiata in giro, come zucchero a velo sulle torte. Unica nota ricca, il macinino di legno scuro, forse ebano, e argento. Senza però il forte odore di caffé in chicchi che impregnava le pareti fino al midollo, come mi sarei aspettato. Come le case dei fumatori accaniti, dopo quaranta anni di 30 sigarette al giorno fumate accanto al camino.
Nella mia testa però, l’aroma di caffé era legato al signor Anselmo. Quando arrivavo al bar, ogni mattina, mi tranquillizzava avere le narici invase dal profumo dei grani appena macinati.
Ma lì non c’era, e forse non era nemmeno poi così importante. Dovevamo sbaraccare, non giocare a “Trova le differenze” della Settimana Enigmistica.
E poi ancora. Riviste di automobili accumulate nello sgabuzzino, forse per cambiare quella Cinquecento che non era stata cambiata mai. Libri lasciati accanto alla poltrona con abat-jour incorporato che parlavano di libertà sociali e discussioni, forse antico retaggio degli anni 60. Per il resto, poche sedie, un tavolo e un divano. Un televisore, mi stupii, troneggiava sul frigorifero, in una posizione tale da potere essere visto più o meno da ogni angolo della casa. Vedergli accanto una radio tuttavia, di quelle vecchie anche lei, mi tranquillizzò e non poco.
Nella cantina ampia e a pian terreno, un po’ troppo buia per i miei gusti, più un box che una cantina, in cui c’era anche la macchinina bianca con le chiavi nel cruscotto, solo un baule con dentro abiti dismessi.
Li mettemmo in un cassonetto per i poveri, così che potessero servire ancora a qualche bisognoso.
“E l’azione buona della giornata è andata”, dissi ridendo.
Emily mi colpì con un buffetto, ma rideva anche lei.
Nonostante l’affitto fosse già stato pagato per i prossimi sei mesi, decidemmo di comune accordo di liberarci in fretta di questa gatta nera. Emily si era offerta di darmi una mano, cosa che, non si nega, mi fece molto piacere. Non ce l’avrei fatta da solo. Non tanto per il lavoro, quanto per la fatica. Insomma, se si dice “mal comune, mezzo gaudio”, ci sarà pure un motivo. Cominciammo una domenica di metà autunno, vestiti a cipolla, in maniera tale da poter gestire al meglio le temperature. Emily aveva addirittura una mascherina per la polvere, io due buoni pacchetti di sigarette. Non mi importava se lei fumasse o meno, ma qualora non avesse portato con sé le sue, non volevo trovarmi a secco a metà giornata.
Iniziammo. L’idea era quella di accumulare tutto alla sinistra dell’ingresso e poi ci avremmo pensato. Anche vendendo tutto in un mercatino dell’usato, ci avremmo ricavato ben poco.

Chi abita nelle corti sa tutto di tutti. I ballatoi costituiscono degli ottimi canali di comunicazione, tanto che stupisce come mai, questa particolare struttura, non sia stata adottata dagli uffici pubblici. Le notizie corrono come scariche elettriche lungo le ringhiere e le persone, istinto inconscio, si fiondano fuori dalla propria casa e tutti davanti all’ingresso dell’appartamento chiamato in causa.
Era toccato anche a noi, mentre facevamo la selezione degli oggetti che potevano servire o che dovevano essere inevitabilmente buttati. Avevamo riordinato tutto. Un ordine maniacale, proprio degli adolescenti che ammucchiano le cose negli angoli quando i genitori ordinano di mettere a posto la loro stanza. Mettevamo tutto sotto la finestra, appoggiato sul muro il materasso, la rete del letto sopra una poltrona e pile e pile di giornali, libri e fogli. Speravo che qualcuno avesse avuto bisogno degli elettrodomestici. Erano in buone condizioni e, buttarli, sarebbe stato proprio un peccato.
Verso le cinque, ormai il sole si era trasformato nel ricordo di un’altra domenica scivolata lungo i campi di calcio, finalmente giunse il momento di fermarsi. Ero stremato, le dita intorpidite e un fortissimo desiderio di Campari. Non c’era un motivo plausibile, ma ne avevo proprio voglia.
Con la fiamma dell’accendino poco sotto il naso, il sapore del fumo che mi inondava la saliva, lo dissi a Emily.
“E da quando bevi Campari? Al bar, al massimo, ti fai una sambuca…” per prendermi in giro.
Feci finta di niente, nonostante mi guardasse aspettando una risposta, gli avambracci sulla ringhiera e la mano destra a penzoloni, come se la porgesse a un re francese.
Cercai di recuperare la situazione.
“Ho proprio una voglia incredibile di un Bitter col bianco. In Piemonte, mi pare, la chiamano Bicicletta… due terzi di Bitter e un terzo di bianco. Che nome particolare. Chissà perché, poi.” Inspirai, espirai.
Avevo ancora il fumo davanti agli occhi che la vecchia dell’appartamento accanto si affacciò alla porta.
“Entrate”, disse in dialetto, “i bicchieri sono già pronti”.
Pazzesco, pensai. “Peggio del KGB”. Emily non accolse bene la battuta, ma il desiderio era così forte che nemmeno mi curai dell’effetto delle mie parole.
La vecchia invece, doveva soffrire di solitudine cronica, aveva voglia di parlare, si vedeva, e sembrava fosse stata anche molto affezionata al signor Anselmo.
Per forza, pensai. Che cosa può desiderare una donna logorroica più di un uomo taciturno?
“Lei è il figlio?” mi chiese dopo un preambolo inutile sulla sua vita in quella casa.
“No. Siamo solo degli operai e dobbiamo portare via tutto. Ma, scusi, lei sa come è morto?”, tagliai corto. Il notaio aveva avuto una fretta matta di liquidarci. E non aveva risposta a nessuna domanda che riguardasse il signor Anselmo da vicino, ma aveva parlato solo degli averi, prima suoi e ora miei.
E la signora cominciò, come fosse una filastrocca nota a tutti.
Ci disse che una mattina aveva un appuntamento, forse per vendere la Cinquecento, ma non si era fatto trovare. L’acquirente era lì sotto, suonava il citofono e niente. Nessuno l’aveva visto uscire, il signor Anselmo, e l’intero condominio si era messo in allarme.
“Sono cose che a una certa età succedono”.
Furono chiamati i pompieri per aprire la porta.
La vecchia aveva in mano un fazzoletto di stoffa, di quelli grandi, con cui continuava ad asciugarsi gli angoli della bocca. Evidentemente una dentiera un po’ difettosa, o la pelle che cominciava a cedere un po’ troppo.
“Ma l’era tardi” continuava incurante della saliva, “e non sembrava nemmeno lui. La bocca aperta, le gambe rigide e delle buste in mano. Una era il testamento e lasciava tutto ad un ragazzo che l’aveva sostituito al bar. Parlava spesso di lui, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.”
Tacque un po’ e cominciò a piangere. Chissà se per parte o per partecipazione.
“L’era un brav’uomo. Pensate. Aveva una nipote che non ho mai visto, perché veniva tardi la sera. Ma il signor Anselmo le lasciava la casa, lui restava a controllare però, mica sciocco. Lei aveva un’associazione culturale, mi aveva detto un giorno, e le prestava la casa per le riunioni. I giovani non hanno più gli spazi, mi diceva sempre” e giù a singhiozzare. Chissà se avrebbe avuto le stesse lacrime, sapendo che la nipote, invece, era la sua donna.
Ma anche se sembrava per finta, non importava. Mi faceva piacere in realtà, nonostante tutto. Le lacrime che non avevo versato io erano state ben sostituite.
La Polizia aveva parlato di infarto, mentre stava cercando di uscire per vendere la macchina. Forse il dolore per doversi separare da un oggetto che l’aveva accompagnato per tutta la vita. Era un vecchio, in fondo, quindi la pratica era stata immediata. Tac, fatto. Come una puntura. O una scoreggia.
La vecchia non ci credeva. E forse non ci credeva nemmeno Emily. Ma la Polizia aveva dato la sua versione, ed io non avevo nessuna voglia di intromettermi. Credevo nella giustizia, in fondo era un obbligo. Perché se uno non crede nella giustizia, che cosa fa. Nel senso. Se uno che comanda, e mi dice che le sue leggi sono fatte a caso, nessuno ha più il diritto di giudicarmi e di comandare. L’unica legge che riconosco, a quel punto, è la mia. Ma la mia legge, lo sapevo bene, sarebbe stata fatta e gestita con la stessa parsimonia di un pesce rosso che mangia.
E quindi, dovevo avere una fiducia cieca. Non potevo vacillare proprio ora.
Tornammo alla nostra casa che oramai sapeva di polvere e basta. Prima forse nascondeva dei segreti, ma ora era fatta solo di angoli e cumuli di gatti di polvere. Non importava più, ormai.

giovedì 10 gennaio 2008

Cinque

Nel capitolo precedente: non ho capito molto bene, a sto giro, cosa volesse dirmi. Si è messo a raccontare una storia del '69. Di quando a Milano è scoppiata la bomba alla Banca dell'Agricoltura.
Come se fosse lui il protagonista e ancora Emily la sua compagna.
Ma loro, nel '69, è impossibile ci fossero...mah.
Che storia triste, per giunta. Almeno, con una barzelletta, persino una di quelle sugli ebrei, la situazione sarebbe più leggera.
E poi, all'improvviso, si è messo a sorridere come raccontasse una storia sentita a cena da altri.
Divertente o meno, è sempre prestigio, no?
Eccolo, su, che mi riguarda. E riprende.
Paradossale come scivolino le parole, in certe situazioni.



La domenica sera arrivò presto. Le partite erano finite e io non conoscevo nemmeno un risultato.
Avevo trascorso l’intero pomeriggio al buio, fuori pioveva e le gocce battevano sulle tapparelle mai sollevate dalla mattina. Nella camera da letto ristagnava l’odore acre delle notti insonni, con il posacenere colmo di cicche sul comodino. Ma ormai il mio naso si era abituato, dopo un iniziale disgusto. Ero rimasto seduto in poltrona da che mi ero svegliato, non avevo mangiato né a pranzo né a cena.
La lettera tra le mani, nessun pensiero vero e, in testa, solo una parola: uh?
Mi sedetti e accesi la radio, credendo che il calcio mi avrebbe per lo meno distratto. L’angoscia mi stava prendendo alla bocca dello stomaco. Più per il timore di quello che poteva succedere a me che del venire a conoscenza di chi fosse il morto.
Poco prima di mezzanotte telefonai ad Emily, una ragazza di quelle del bar. Fortuna che era a casa. Volevo chiederle di accompagnarmi. Con lei ero un po’ più in confidenza, rispetto alle altre. Non che ci conoscessimo, ovvio, qualche monito del signor Anselmo l’avevo ancora ben presente. Però lei ogni tanto aveva bisogno di parlare e ogni tanto mi chiamava, perché forse, sembrando coetanei, mi sentiva più vicino a lei di quanto lo fossero le altre.
Era una nuova del giro fisso e aveva avuto una storia del cazzo alle spalle. Si drogava e faceva vedere le tette agli amici, all’inizio. Poi, con quei soldi non ce la faceva più, e allora qualche sega, qualche pompino. Aveva toccato il fondo quando anche il prete, in confessionale, le aveva fatto un’avance per una dose. Pensare che il padre le aveva dato quel nome con un senso di dolcezza fuori dal comune. Per ricordare una bella amica in una brutta situazione, mi aveva detto.
E così, forse anche per questo, aveva smesso di drogarsi, voleva chiudere. Cliniche, giorni legata ad un letto, mangiando sbobba. Come in caserma.
“Ma chi l’assume più, una che si drogava”, mi aveva detto un giorno. Così era tornata a fare l’unico mestiere che era in grado di fare. Di cui la natura l’aveva dotata, diceva ridendo.
Mi aveva lasciato il suo numero di telefono, qualora avessi avuto anche io voglia di sentirla. Non era mai successo, prima d’ora. Ma quando uno realizza di essere solo, cerca un qualsiasi appiglio per non crederci.
Ci avevo messo poco più di dodici ore a decidermi, però.
“Pronto. Emily. Sono io. Come stai?”
“Ciao, io sto bene!”
“Ok. Mi fa piacere. Senti. Domani mattina devo andare da un notaio per la lettura di un testamento. Ti va di accompagnarmi?”
“Certo. Così magari quando esci da lì, sei ricco sfondato e mi porti via da questa merda!” continuava a ridere come una ragazzina. Con l’eccitazione sciocca che prova un neo patentato a guidare sotto la pioggia.
“No, guarda. Mi sa che è solo una formalità. Cose burocratiche. Tanto più che né ho sentito di parenti morti, né ho mai conosciuto persone ricche”.
E chiusi una conversazione che avrebbe potuto costituire uno spiacevole precedente, senza nemmeno salutare.