venerdì 1 febbraio 2008

Otto

Nel capitolo precedente: veramente. Questo qui, veramente, sembra un pazzo. Va bene che ci resti male. Va bene che ti fa anche soffrire. Sai, un amico che sparisce, poi. Senza nemmeno riuscire a salutarlo.
Però, mi sembra che sia ostinato. Troppo. E poi girare a caso, alla ricerca di chissà che cosa.
Sembra quasi la coda della lucertola quando non è più legata al corpo. Che si agita scomposta tra le falangette dell'indice e del pollice.
Però, che strano. Più va avanti e più anche a me sembra che qualcosa manchi. Come quella signora, quella del bar di fronte.
Chè l'Anselmo non era altro che un bugiardo.
Mah.
Non lo so.
Speriamo solo che non tratti male quella Emily lì.
Deve essere proprio bella, quella Emily lì.



Glielo dissi una mattina, in cui nemmeno trovai il tempo per salutarla.
“Emily. Forse hai ragione. Il signor Anselmo, intendo. C’è qualcosa che non capisco”.
Ci restò di sasso. Forse non se lo aspettava, nei suoi occhi spalancati. Forse nemmeno lei ne voleva la conferma e mi usava da contraltare alle sue illazioni da dodicenne. Certo, lo sapevo anche io, era facile da pensare a un complotto da soli, la televisione ce lo aveva insegnato da dio. Ma se due persone fanno lo stesso sogno, è naturale che si preoccupino.
Avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Però prima tornai all’appartamento che, benché vuoto, nascondeva ancora qualche curiosità. Come, ad esempio, quella pila di fogli che tutti hanno, sicuramente, di lettere non spedite.
In macchina, senza riuscire a superare i 50 chilometri l’ora e senza sapere se mettere la terza o meno, mi chiesi se effettivamente cominciavo a credere a quella storia, o se solo era un modo per non accettare una morte tanto banale. Che, in effetti, un giorno sarebbe potuta capitare anche a me.
La signora anziana che gli abitava accanto oramai conosceva il mio volto e non mi fece nessuna osservazione quando entrai. Mi considerava un poveraccio che lavorava col corpo e che dalla mente non avrebbe ottenuto niente più che una fatica di braccia. Mi salutò con un ondeggiamento riverenziale della veste. Nel casino generale delle pile di giornali, abiti e carte, riposizionai la poltrona nel luogo originale e mi guardai attorno.
Avevamo fatto un ottimo lavoro, io ed Emily. L’appartamento era irriconoscibile. Per fortuna, lei era una maniaca delle fotografie e ne aveva fatte a bizzeffe. Gliele avrei chieste l’indomani. Bisognava riportare tutto nelle originarie posizioni. Lì, e solo allora, avrei trovato o meno la chiave della situazione. Magari non c’era niente da scoprire, ma coi piedi fissati nella polvere, questo sfizio da investigatore volevo togliermelo.

Emily mi portò le foto dopo circa una settimana. Andammo insieme alla casa di ringhiera del signor Anselmo e le auto parcheggiate lungo la strada non immaginavano nemmeno quale attesa per una qualche scoperta mi rovinava dentro.
Sembravano stupite, nei loro musi lunghi, di trovarmi ancora lì.
Sul fondo della stanza, con le gambe allacciate tra loro in modo quasi innaturale, Emily mi osservava. Mi agitavo per riprodurre fedelmente l’ambientazione proposta dalle foto. Ci misi un po’ e, asciugandomi una goccia di sudore che fastidiosamente pendeva sulla fronte, mi misi accanto a lei soddisfatto.
“E ora?” mi domandò sorridendo appena, come se fossi un idiota.
“E ora aspettiamo di trovare qualcosa”.
“Se qualcosa la cerchi, la trovi. Se c’è però. Se no, puoi attaccarti al tram”.
“Emily! Un po’ più di fiducia…”. Avevo capito che per lei, i sospetti e tutto il resto, erano solo una specie di gioco. Ma ora che bisognava giocare, veniva fuori che l’anima da dura, l’aveva lasciata in chissà che abito di carnevale.
La sera stava tornando e le ombre si allungavano su tutto il pavimento, scandendo come una meridiana le righe che dividevano le piastrelle. Un altro buco nell’acqua, non potevo sopportarlo. Per lo meno, a mio vantaggio, mi avrebbe distrutto il castello di illazioni che mi ero costruito.
E infatti fu così, carta dopo carta, mano dopo mano, cercavo di ridisegnare quel mondo, fino a che non si avvertirono i primi gorgoglii degli stomaci. Cosa più che naturale, è ovvio. Ma uno stomaco che gorgoglia, dà sempre un po’ fastidio, mi aveva detto una volta il signor Anselmo, citando chissà che cosa, chissà di chi.
Mi sollevai dalla poltrona che per un pomeriggio si era trasformata in una sorta di punto di vedetta.
Emily si alzò, anche lei piuttosto perplessa, convinta di aver buttato via un intero giorno libero.
Mi sentivo in colpa per questo. Anche perché ci sarebbe voluto ancora del tempo per riammassare tutto nell’angolo. In fondo, un giorno intero di riposo non lo era solo per lei, ma anche per quelle parti del corpo che stressate a lungo, si rovinano.
Decisi che sarebbe finita lì, basta. Presi la chiavi dalla mensola quando ormai non ci si vedeva più e chiudemmo la porta, lasciandole dietro un lavoro che era stato già fatto e che si sarebbe dovuto fare daccapo.
Scendendo le scale costruite attorno a un ascensore coi cavi esposti, di quelli che mettono paura ad ogni sussulto, pensai che una volta a casa, forse era il caso di ritirare la posta. Intasata, come per tutti, dalle locandine pubblicitarie di scarpe e attrezzi da trekking. E mentre inserivo la chiave nel cruscotto dell’Alfa, pensai che il signor Anselmo aveva avuto un infarto come tanti. E che l’unica cosa di cui bisognava dispiacersi, era che non si era goduto nemmeno la pensione.
Sarei tornato a prendere la Cinquecento, poteva tornarmi utile, quello sì. In fondo, l’Alfa consumava un po’ troppo per quello che era il mio salario, e un’utilitaria piccola ed economica poteva farmi comodo. Ma l’appartamento, quello l’avrei fatto liberare da degli operai. Non avevo più intenzione di rimetterci piede.

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