giovedì 24 gennaio 2008

Sette

Nel capitolo precedente: io lo sapevo che poi il vecchio moriva. I vecchi muoiono tutti. Prima o poi. Ci si deve preparare. Ma lui, per me, non era pronto. Lo so.
Soprattutto se poi uno si ritrova a parlare con uno sconosciuto in un bar. Di notte. Da solo.
Certo, figurati se non moriva.
E anche i dubbi. Hai voglia a parlare di dubbi. Uno muore e basta. E se hai duecento anni, è il ciclo della vita.
Mica è omicidio. Non ha senso fasciarsi la testa.
E poi gli è già andata di culo che gli ha lasciato la 500.
Deve farsi due sbatti, pulire e buttare via un po' di roba, certo.
Ma tanto, mica è solo. C'è Emily.

Che poi. Tra un po' mi dice che si sono pure innamorati... teneri.



Emily mi seguiva con lo sguardo preparare caffé e bicchieri di Coca Cola per le sue colleghe. Cominciavo ad essere saturo di quei gesti, non rivolgevo la parola più a nessuno. Mi sentivo immerso in una rete che nemmeno i pescatori potevano immaginare. D’altronde, la pesca a strascico era vietata.
I clienti sfilavano come passanti su un marciapiede. Anonimi come poche ombre sanno essere, ma come è giusto che quelli che vanno con le puttane siano. Non riuscivo a distogliermi dall’idea che il signor Anselmo fosse stato ucciso. Non ne avevo parlato più di tanto con Emily, visto che lei era convinta di una cosa ben precisa, ma io ero piuttosto scettico.
Che cazzo, mi dicevo. Già i vecchi non interessano a nessuno. Il governatore di una banca, ucciderlo avrebbe un minimo di peso. Ma un barista, che per giunta lavorava in un locale ad ore, che senso ha. Come schiacciare una formica in un formicaio. Figurati se ti cambia la vita.
E nemmeno i ladri, non era stato trafugato niente. Dovevo accettare la realtà. Sono cose che succedono, ai vecchi.
La vetrina si appannava, cominciava a fare freddo. Quelli che vendevano le caldarroste si accalcavano lungo i marciapiedi del centro e i passanti, delle loro caldarroste, non sapevano che farsene. Faceva freddo, e piuttosto la grappa. Almeno, il calore, avevi la minima idea di percepirlo. Lo avevano capito i montanari, perché non li avevano imitati, i milanesi?
Come al solito nel bar, un tizio che lavorava lì vicino, ci portò i panini. Noi li facevamo, certo, ma solo per i clienti. Era necessaria roba che ridesse la carica, mica i condimenti leggeri che volevano le signorine. Pomodoro e mozzarella, bresaola e rucola contro speck e brie, cotoletta alla milanese e fontina. Dovevano tenersi in forma, loro, nonostante non fossero soubrette, anzi. Certo, entrambe con il corpo ci lavoravano, ma qui anche il corpo lavorava con loro. Quindi un minimo di ritegno, ci voleva. Un do ut des in piena regola.
Uscii, mi sentivo a disagio tra morsi strappati e mascelle contratte. L’Alfetta sembrava sorridesse, con i fari tondi e lo scudetto che pareva in naso, il colore giallo perfettamente intonato alle strisce del parcheggio riservato ai portatori di handicap. In certe cose, lo stile si nota, pensai.
L’inverno si faceva strada a larghi passi e, mentre fumavo, le dita mi si irrigidirono. Fino a diventare quasi viola, ma le osservavo senza nasconderle nel calore nemmeno un po’. Una sigaretta all’aperto è sempre un’altra cosa.
Forse, più probabilmente, volevo solo evitare lo sguardo di Emily. Non avevo la minima voglia di intricarmi in difficili scambi di battute sul signor Anselmo. Lei sicuramente mi avrebbe fatto altre domande, mentre l’unica cosa che poteva interessarmi erano le forme antiche della ‘nipote’ del vecchio. Sbuffai fuori l’ultimo tiro e con lo sguardo attraversai la strada. Cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia davanti ai fanali accesi delle auto che scorrevano silenziose nelle due corsie a senso alternato. Si piegavano sotto i coni di luce come fili d’erba in un prato. Ripensai all’ultimo giorno del signor Anselmo e di come poi le cose fossero cambiate.
Vidi il bar di fronte e la cassiera seduta alla cassa. Guardava il calendario e forse avrebbe potuto darmi una mano. Almeno spiegarmi la storia del caffé.


Non avrei mai saputo come convincerla se non fosse stato per Lo Bianco, un appuntato dei Carabinieri che ogni tanto chiedeva del vino bianco al bancone. Magari passava per una sbirciatina, ma quando chiedeva una spruzzata di Campari sapevamo entrambi a cosa si riferiva. E una signorina, allora, doveva sacrificarsi. Una marchetta per il quieto vivere, dicevano ai tavoli.
Mi doveva il favore di essergli complice agli occhi dell’Arma, non mi avrebbe negato l’onore di accompagnarlo dalla Comare. Avevo cominciato a chiamare così la signora di cui il signor Anselmo si era innamorato, perché mi sembrava una persona di famiglia ma dalla quale dubitare. Non perché ce ne fosse il motivo, certo, ma perché per colpa sua il signor Anselmo era stato male.
Non discutevo sulle ragioni, ognuno avrà avuto le sue, ma in quel caso giustificavo persino il tifoso più violento. Quindi, sempre e comunque dalla mia parte.
Fatto sta che Lo Bianco mi aiutò volentieri. A patto che i prossimi due Campari spruzzati li offrissi io. Aveva un ghigno da faina sul volto, e una mano in tasca a giocare con una sigaretta. Come se già pregustasse il momento successivo alla riscossione.
Volgare, cazzo, mi venne da pensare.
La signora, o ancora signorina più probabilmente, non risparmiò parole. Appena vide la divisa, si lasciò andare in confidenze che non avrebbe fatto nemmeno alle amiche.
Le caramelle vicino alla cassa abbondavano e, dal momento che mi sentivo forte di me più che mai, ne approfittai a iosa. Gratuitamente, ovvio. L’essere con un Carabiniere mi dava un’autorità non da poco.
Avevamo simulato la tipica situazione da poliziesco americano. Lui quello buono, che parla e che cerca di mettere a suo agio l’interrogato. Io quello cattivo, che gira attorno a entrambi e che sta zitto. Con uno sguardo che la metà basta. Ma dopo poco smisi. Anche perché, a stare con la faccia corrugata il più possibile, mi si stavano atrofizzando i muscoli del volto. Cominciavano a farmi male.
La sedia su cui lei era seduta, con noi due in piedi di fronte, aveva un lieve difetto sullo schienale. La pelle si stava staccando, forse per le troppe schiene cui vi si erano poggiate, forse per i troppi cowboy che l’avevano usata al contrario, sbocconcellandosi le unghie.
Ci disse tutto. Rispose a qualsiasi domanda, ma la maggior parte le faceva Lo Bianco ed erano perfettamente inutili. Aveva accumulato pettegolezzi sulla vita passata della donna e del quartiere, più che informazioni.
Fu alla fine che le chiesi del caffé macinato. Mi rispose che non ne sapeva niente, ma ora che ci pensava, le pareva di ricordare che era un odore che il signor Anselmo aveva spesso addosso. Però purtroppo non sapeva come giustificarlo.
“E poi io, il caffé, non l’ho mai potuto sopportare! Nemmeno l’odore! Ma l’amavo…”
E ci disse anche che, secondo lei, il signor Anselmo era sempre stato un gran bugiardo. Non proprio in questi termini.
“Piano con le parole” le intimai. Mi sentivo come uno cui insultano Bearzot dopo il Mondiale dell’86. Avevamo vinto quattro anni prima, dopo tutto. Non si poteva sputare nel piatto in cui si mangia. Inoltre, quello era il mondiale di Maradona e della mano di Dio. E contro Dio, nessuno avrebbe avuto una sola chance.
Però una cosa di importante era venuta fuori, tra i tavoli che sapevano di plastica e il pavimento che sembrava di finto pavè. Il signor Anselmo le nascondeva qualcosa. e anche a me.
“Facile così” dissi a Lo Bianco, mentre una Cinquecento bianca ci passava davanti. Non credevo che ce ne fossero ancora così tante, in giro. Magari, nei paesi dell’Est le producevano ancora.
“È come se io ti dicessi che, forse, uno di quei giovani seduti al parco prima o poi si fumerà una canna”
Lo Bianco fece un sorriso: “Limitati a fare il barista. Lo specialista sono io”.
“Certo”. Era fin troppo facile fare il giustiziere duro e puro, e farsi passare i caffé corretti gratis.
Anche se questo era ancora da vedere.
Era stato un buco nell’acqua. La Comare aveva sì parlato, ma solo dei suoi pianti e isterismi di anni e anni prima. Non aveva aggiunto nulla di più di quanto il signor Anselmo mi avesse detto già. Eccetto l’odore del caffé. Ma era una falla da poco conto.
Un grosso, enorme, noiosissimo buco nell’acqua. Con anche la piaga di Lo Bianco, per giunta.
E fu per questo che i giorni successivi furono giorni di fuoco. Se ne accorsero tutti. Restringevo anche i caffé ristretti. Ero nervoso e teso. Non mi si poteva dire niente. Neppure che Terence Hill era gay per ridere, e me la prendevo come se fosse una questione personale.
Emily mi guardava da lontano e, dai suoi occhi, vedevo che non mi riconosceva. Sembrava allibita. Una studentessa che guarda con aria attonita una sfuriata fuori luogo di un’insegnante.
Eppure mi aveva visto e conosciuto come una persona distaccata, tra i bicchieri che erano di grandezza diversa e i poster che non richiamavano nessun elemento dell’ambiente circostante.
Dove ero finito? Non lo sapevo e avevo cominciato a fumare tenendo la sigaretta tra i denti, come quei vecchi anarchici che hanno sulla pelle la strage di piazza Fontana.

giovedì 17 gennaio 2008

Sei

Nel capitolo precedente: parla a spizzichi e bocconi. Come fosse solo. E poi fuma e sorseggia.
Un bel casino stargli dietro, a sto qui. Nel senso. Prima mi inviti a bere qualcosa, e va bene.
Poi decidi di raccontarmi qualcosa, e va bene.
E io decido pure di ascoltarti, e questo va benissimo.
Ma quando ti ritrovi a parlare da solo, be', questo non va tanto bene.
Anche perché io mica posso perdere tutta la notte a sentire un pazzo sclerotico che ricerca chissà che cosa nei suoi ricordi!
O no?


Lo studio del notaio era abbastanza accogliente. Poltrone di finta pelle, copie di quadri famosi alle pareti, finte bottiglie di alcolici. Tè nelle bottiglie di whisky.
Mi sentivo in imbarazzo per lui. Certo, faceva scena, ma dedussi che i clienti dello studio fossero degli imbecilli. O per lo meno che non trattasse con clienti che i bar li frequentavano spesso.
Ci accomodammo sulle sedie e il notaio cominciò a parlare. Con accento meridionale.
Era uno di quelli allevati dalla DC e portati alla ricchezza dal nord. E che, sentendosi arrivati, non avrebbero esitato un attimo a chiamare i propri compaesani terroni, se li avesse incontrati per strada.
“Certamente sarete a conoscenza della morte del signor Anselmo Mezzaspada”
No, non lo eravamo. E probabilmente le nostre facce lo esprimevano. Tanto più che Emily non lo conosceva nemmeno. Piegò le labbra verso il basso, giudicandoci dei parenti degeneri. Non sapere nemmeno che un parente è morto, che sfregio.
“Comunque. Non è questo il punto. Il signor Mezzaspada è morto circa un mesetto fa, ci abbiamo messo un po’ a trovarla. Tanto è vero che poi siamo finiti al bar. Oggi verrà data la lettura del testamento. Lei, e immagino a questo punto la sua compagna, siete gli unici cui il Mezzaspada ha lasciato i suoi averi”.
“Ok. Mi dispiace per il signor Anselmo. Primo, lei non è la mia compagna”, indicando Emily, “Due, la mia famiglia è un altro discorso. E poi non vedo perché abbia lasciato tutto a me. Non aveva parenti o amici?”
Mi stavo arrabbiando. Mi sentivo in una sitcom americana. La poltrona di finta pelle nera iniziava a darmi fastidio. La tela dei jeans non scivolava e io non riuscivo a mettermi a mio agio. O forse erano quelle due enormi facce di legno africano dietro la scrivania che mi mettevano in soggezione. Sembrava uno studio arredato in maniera assolutamente casuale. E dire che, uno che fa il notaio, i soldi per prendersi un architetto dovrebbe averceli. Che indecenza.
Fatto sta che a nessuno importava niente di ciò che c’era dietro al testamento, parentele o amicizie o altre sciocchezze. Anche se fossi stato uno sconosciuto, nel testamento c’era il mio nome e io mi dovevo prendere quello che c’era nella casa del signor Anselmo. Punto e basta, senza perdere altro tempo a discutere. Ed Emily già pensava che saremmo diventati ricchi, di una ricchezza accumulata per anni e mai spesa.
Mi furono consegnate in mano le chiavi di un appartamento in centro, zona Porta Romana o giù di lì. Sicuramente in una di quelle via lastricate di pavè che poco fanno bene alle sospensioni di auto vecchia di trenta anni.


Il signor Anselmo, poverino, non aveva quasi niente. L’unica sua ricchezza era un terzo di un magazzino comprato anni prima con due amici. Dei quali era rimasto in vita soltanto un certo Enrico De Nocciola. Tramite il notaio, mi era giunta la proposta di vendergli la mia parte di immobile, i documenti erano già pronti e i soldi in contanti stesi accanto a una penna.
Con cui firmai. Di un ex deposito nemmeno intero, in zona Navigli, non sapevo che farmene e, piuttosto che pagare tasse su una cosa di cui non mi importava affatto, preferivo far felice uno sconosciuto. Anche perché immaginavo che volesse farci qualcosa, con quel magazzino. Mi sembrava un atto di carità, e intascai immediatamente quei soldi.
In casa del signor Anselmo, un piccolo due locali in una vecchia casa a ringhiera, non c’era poi molto di interessante. Solo la porta tanto ricoperta da escrementi di piccioni, da credere che fossero chili. Rappresentava forse una minaccia, oppure la pigrizia di chi non ha molta voglia di pulire.
Tutto era in ordine, all’interno, curato con fare certosino. Solo la polvere di un mesetto buono adagiata in giro, come zucchero a velo sulle torte. Unica nota ricca, il macinino di legno scuro, forse ebano, e argento. Senza però il forte odore di caffé in chicchi che impregnava le pareti fino al midollo, come mi sarei aspettato. Come le case dei fumatori accaniti, dopo quaranta anni di 30 sigarette al giorno fumate accanto al camino.
Nella mia testa però, l’aroma di caffé era legato al signor Anselmo. Quando arrivavo al bar, ogni mattina, mi tranquillizzava avere le narici invase dal profumo dei grani appena macinati.
Ma lì non c’era, e forse non era nemmeno poi così importante. Dovevamo sbaraccare, non giocare a “Trova le differenze” della Settimana Enigmistica.
E poi ancora. Riviste di automobili accumulate nello sgabuzzino, forse per cambiare quella Cinquecento che non era stata cambiata mai. Libri lasciati accanto alla poltrona con abat-jour incorporato che parlavano di libertà sociali e discussioni, forse antico retaggio degli anni 60. Per il resto, poche sedie, un tavolo e un divano. Un televisore, mi stupii, troneggiava sul frigorifero, in una posizione tale da potere essere visto più o meno da ogni angolo della casa. Vedergli accanto una radio tuttavia, di quelle vecchie anche lei, mi tranquillizzò e non poco.
Nella cantina ampia e a pian terreno, un po’ troppo buia per i miei gusti, più un box che una cantina, in cui c’era anche la macchinina bianca con le chiavi nel cruscotto, solo un baule con dentro abiti dismessi.
Li mettemmo in un cassonetto per i poveri, così che potessero servire ancora a qualche bisognoso.
“E l’azione buona della giornata è andata”, dissi ridendo.
Emily mi colpì con un buffetto, ma rideva anche lei.
Nonostante l’affitto fosse già stato pagato per i prossimi sei mesi, decidemmo di comune accordo di liberarci in fretta di questa gatta nera. Emily si era offerta di darmi una mano, cosa che, non si nega, mi fece molto piacere. Non ce l’avrei fatta da solo. Non tanto per il lavoro, quanto per la fatica. Insomma, se si dice “mal comune, mezzo gaudio”, ci sarà pure un motivo. Cominciammo una domenica di metà autunno, vestiti a cipolla, in maniera tale da poter gestire al meglio le temperature. Emily aveva addirittura una mascherina per la polvere, io due buoni pacchetti di sigarette. Non mi importava se lei fumasse o meno, ma qualora non avesse portato con sé le sue, non volevo trovarmi a secco a metà giornata.
Iniziammo. L’idea era quella di accumulare tutto alla sinistra dell’ingresso e poi ci avremmo pensato. Anche vendendo tutto in un mercatino dell’usato, ci avremmo ricavato ben poco.

Chi abita nelle corti sa tutto di tutti. I ballatoi costituiscono degli ottimi canali di comunicazione, tanto che stupisce come mai, questa particolare struttura, non sia stata adottata dagli uffici pubblici. Le notizie corrono come scariche elettriche lungo le ringhiere e le persone, istinto inconscio, si fiondano fuori dalla propria casa e tutti davanti all’ingresso dell’appartamento chiamato in causa.
Era toccato anche a noi, mentre facevamo la selezione degli oggetti che potevano servire o che dovevano essere inevitabilmente buttati. Avevamo riordinato tutto. Un ordine maniacale, proprio degli adolescenti che ammucchiano le cose negli angoli quando i genitori ordinano di mettere a posto la loro stanza. Mettevamo tutto sotto la finestra, appoggiato sul muro il materasso, la rete del letto sopra una poltrona e pile e pile di giornali, libri e fogli. Speravo che qualcuno avesse avuto bisogno degli elettrodomestici. Erano in buone condizioni e, buttarli, sarebbe stato proprio un peccato.
Verso le cinque, ormai il sole si era trasformato nel ricordo di un’altra domenica scivolata lungo i campi di calcio, finalmente giunse il momento di fermarsi. Ero stremato, le dita intorpidite e un fortissimo desiderio di Campari. Non c’era un motivo plausibile, ma ne avevo proprio voglia.
Con la fiamma dell’accendino poco sotto il naso, il sapore del fumo che mi inondava la saliva, lo dissi a Emily.
“E da quando bevi Campari? Al bar, al massimo, ti fai una sambuca…” per prendermi in giro.
Feci finta di niente, nonostante mi guardasse aspettando una risposta, gli avambracci sulla ringhiera e la mano destra a penzoloni, come se la porgesse a un re francese.
Cercai di recuperare la situazione.
“Ho proprio una voglia incredibile di un Bitter col bianco. In Piemonte, mi pare, la chiamano Bicicletta… due terzi di Bitter e un terzo di bianco. Che nome particolare. Chissà perché, poi.” Inspirai, espirai.
Avevo ancora il fumo davanti agli occhi che la vecchia dell’appartamento accanto si affacciò alla porta.
“Entrate”, disse in dialetto, “i bicchieri sono già pronti”.
Pazzesco, pensai. “Peggio del KGB”. Emily non accolse bene la battuta, ma il desiderio era così forte che nemmeno mi curai dell’effetto delle mie parole.
La vecchia invece, doveva soffrire di solitudine cronica, aveva voglia di parlare, si vedeva, e sembrava fosse stata anche molto affezionata al signor Anselmo.
Per forza, pensai. Che cosa può desiderare una donna logorroica più di un uomo taciturno?
“Lei è il figlio?” mi chiese dopo un preambolo inutile sulla sua vita in quella casa.
“No. Siamo solo degli operai e dobbiamo portare via tutto. Ma, scusi, lei sa come è morto?”, tagliai corto. Il notaio aveva avuto una fretta matta di liquidarci. E non aveva risposta a nessuna domanda che riguardasse il signor Anselmo da vicino, ma aveva parlato solo degli averi, prima suoi e ora miei.
E la signora cominciò, come fosse una filastrocca nota a tutti.
Ci disse che una mattina aveva un appuntamento, forse per vendere la Cinquecento, ma non si era fatto trovare. L’acquirente era lì sotto, suonava il citofono e niente. Nessuno l’aveva visto uscire, il signor Anselmo, e l’intero condominio si era messo in allarme.
“Sono cose che a una certa età succedono”.
Furono chiamati i pompieri per aprire la porta.
La vecchia aveva in mano un fazzoletto di stoffa, di quelli grandi, con cui continuava ad asciugarsi gli angoli della bocca. Evidentemente una dentiera un po’ difettosa, o la pelle che cominciava a cedere un po’ troppo.
“Ma l’era tardi” continuava incurante della saliva, “e non sembrava nemmeno lui. La bocca aperta, le gambe rigide e delle buste in mano. Una era il testamento e lasciava tutto ad un ragazzo che l’aveva sostituito al bar. Parlava spesso di lui, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.”
Tacque un po’ e cominciò a piangere. Chissà se per parte o per partecipazione.
“L’era un brav’uomo. Pensate. Aveva una nipote che non ho mai visto, perché veniva tardi la sera. Ma il signor Anselmo le lasciava la casa, lui restava a controllare però, mica sciocco. Lei aveva un’associazione culturale, mi aveva detto un giorno, e le prestava la casa per le riunioni. I giovani non hanno più gli spazi, mi diceva sempre” e giù a singhiozzare. Chissà se avrebbe avuto le stesse lacrime, sapendo che la nipote, invece, era la sua donna.
Ma anche se sembrava per finta, non importava. Mi faceva piacere in realtà, nonostante tutto. Le lacrime che non avevo versato io erano state ben sostituite.
La Polizia aveva parlato di infarto, mentre stava cercando di uscire per vendere la macchina. Forse il dolore per doversi separare da un oggetto che l’aveva accompagnato per tutta la vita. Era un vecchio, in fondo, quindi la pratica era stata immediata. Tac, fatto. Come una puntura. O una scoreggia.
La vecchia non ci credeva. E forse non ci credeva nemmeno Emily. Ma la Polizia aveva dato la sua versione, ed io non avevo nessuna voglia di intromettermi. Credevo nella giustizia, in fondo era un obbligo. Perché se uno non crede nella giustizia, che cosa fa. Nel senso. Se uno che comanda, e mi dice che le sue leggi sono fatte a caso, nessuno ha più il diritto di giudicarmi e di comandare. L’unica legge che riconosco, a quel punto, è la mia. Ma la mia legge, lo sapevo bene, sarebbe stata fatta e gestita con la stessa parsimonia di un pesce rosso che mangia.
E quindi, dovevo avere una fiducia cieca. Non potevo vacillare proprio ora.
Tornammo alla nostra casa che oramai sapeva di polvere e basta. Prima forse nascondeva dei segreti, ma ora era fatta solo di angoli e cumuli di gatti di polvere. Non importava più, ormai.

giovedì 10 gennaio 2008

Cinque

Nel capitolo precedente: non ho capito molto bene, a sto giro, cosa volesse dirmi. Si è messo a raccontare una storia del '69. Di quando a Milano è scoppiata la bomba alla Banca dell'Agricoltura.
Come se fosse lui il protagonista e ancora Emily la sua compagna.
Ma loro, nel '69, è impossibile ci fossero...mah.
Che storia triste, per giunta. Almeno, con una barzelletta, persino una di quelle sugli ebrei, la situazione sarebbe più leggera.
E poi, all'improvviso, si è messo a sorridere come raccontasse una storia sentita a cena da altri.
Divertente o meno, è sempre prestigio, no?
Eccolo, su, che mi riguarda. E riprende.
Paradossale come scivolino le parole, in certe situazioni.



La domenica sera arrivò presto. Le partite erano finite e io non conoscevo nemmeno un risultato.
Avevo trascorso l’intero pomeriggio al buio, fuori pioveva e le gocce battevano sulle tapparelle mai sollevate dalla mattina. Nella camera da letto ristagnava l’odore acre delle notti insonni, con il posacenere colmo di cicche sul comodino. Ma ormai il mio naso si era abituato, dopo un iniziale disgusto. Ero rimasto seduto in poltrona da che mi ero svegliato, non avevo mangiato né a pranzo né a cena.
La lettera tra le mani, nessun pensiero vero e, in testa, solo una parola: uh?
Mi sedetti e accesi la radio, credendo che il calcio mi avrebbe per lo meno distratto. L’angoscia mi stava prendendo alla bocca dello stomaco. Più per il timore di quello che poteva succedere a me che del venire a conoscenza di chi fosse il morto.
Poco prima di mezzanotte telefonai ad Emily, una ragazza di quelle del bar. Fortuna che era a casa. Volevo chiederle di accompagnarmi. Con lei ero un po’ più in confidenza, rispetto alle altre. Non che ci conoscessimo, ovvio, qualche monito del signor Anselmo l’avevo ancora ben presente. Però lei ogni tanto aveva bisogno di parlare e ogni tanto mi chiamava, perché forse, sembrando coetanei, mi sentiva più vicino a lei di quanto lo fossero le altre.
Era una nuova del giro fisso e aveva avuto una storia del cazzo alle spalle. Si drogava e faceva vedere le tette agli amici, all’inizio. Poi, con quei soldi non ce la faceva più, e allora qualche sega, qualche pompino. Aveva toccato il fondo quando anche il prete, in confessionale, le aveva fatto un’avance per una dose. Pensare che il padre le aveva dato quel nome con un senso di dolcezza fuori dal comune. Per ricordare una bella amica in una brutta situazione, mi aveva detto.
E così, forse anche per questo, aveva smesso di drogarsi, voleva chiudere. Cliniche, giorni legata ad un letto, mangiando sbobba. Come in caserma.
“Ma chi l’assume più, una che si drogava”, mi aveva detto un giorno. Così era tornata a fare l’unico mestiere che era in grado di fare. Di cui la natura l’aveva dotata, diceva ridendo.
Mi aveva lasciato il suo numero di telefono, qualora avessi avuto anche io voglia di sentirla. Non era mai successo, prima d’ora. Ma quando uno realizza di essere solo, cerca un qualsiasi appiglio per non crederci.
Ci avevo messo poco più di dodici ore a decidermi, però.
“Pronto. Emily. Sono io. Come stai?”
“Ciao, io sto bene!”
“Ok. Mi fa piacere. Senti. Domani mattina devo andare da un notaio per la lettura di un testamento. Ti va di accompagnarmi?”
“Certo. Così magari quando esci da lì, sei ricco sfondato e mi porti via da questa merda!” continuava a ridere come una ragazzina. Con l’eccitazione sciocca che prova un neo patentato a guidare sotto la pioggia.
“No, guarda. Mi sa che è solo una formalità. Cose burocratiche. Tanto più che né ho sentito di parenti morti, né ho mai conosciuto persone ricche”.
E chiusi una conversazione che avrebbe potuto costituire uno spiacevole precedente, senza nemmeno salutare.