venerdì 28 dicembre 2007

Pit stop

E poi capita che cade il Natale e si aspetta il capodanno.
E poi, invece, più che stare al computer, si prefersce andare fuori, mangiare e bere, stare con gli amici.
O con la famiglia, dipende.
Perché a volte è la stessa cosa.

E allora, forse è meglio stare tranquilli e un po' con quell'animo leggero e chiaro come le nebbie di questi giorni.
Buone vacanze, ci risentiamo poi.

Teo

lunedì 24 dicembre 2007

12 DICEMBRE 1969

Nel capitolo quattro: chissà perchè. Chissà come mai. Chissà perchè raccontare proprio a me queste cose.
Mi chiedo che cosa sia successo. Anche perchè uno non è che riceve una convocazione testamentaria di punto in bianco.
Ma deve essergli successo qualcosa di brutto, cazzo.
Perchè adesso ha iniziato una storia che non c'entra niente.
E che parla di cose lontane. In cui, per me, lui non c'entra affatto. Ma per qualche strano motivo lo coinvolgono.
Occhi verso l'alto, voce più bassa. Come se riportasse un ricordo di qualcun altro, che non riesce a trattenere tra le labbra.
Come fossero parole di sigaretta.


Una signora fuma soffiando verso l’alto e io metto soltanto un piede in avanti. Vorrei avere qualcosa tra le mani che mi tenga occupato, ma se prendo una birra finisce che la bevo tutto d’un fiato. Poi due minuti, e sono punto e a capo. Tanto più che qui, all’inizio di via Dante, costa troppo. Quindi accendo e spengo mille sigarette, sperando che Emily arrivi presto. Senza calcolare che non ho nemmeno molti soldi e più tardi vorrei offrirle anche qualche cosa.
Un cinemino, che ne so. O una tazza di caffé americano, che in questo periodo va molto. Meglio essere alla moda, sì.
La cosa più curiosa di Emily è il suo costante ritardo. Non ho ancora capito se mi fa impazzire o se mi fa tenerezza. Non credo lo faccia apposta, ma resta il fatto che, sommando i ritardi, mi ritrovo ad aspettarla per delle ore. Che sono ancora più lunghe, ancora più alienanti, se ad ogni nostro appuntamento arrivo con almeno venti minuti di anticipo. Mi dispiacerebbe farla star sola per farle capire che cosa si prova, anche se non succede mai.
Emily, Emily. Mi piace questo nome. Una volta, lei mi ha anche detto che se non fosse riuscita ad avere dei figli, avrebbe voluto che qualcuno desse il suo nome a una bambina. Come a voler vivere ancora un po’ di più dopo la morte.
Che sciocchezze.
Mi guardo le dita e si stanno arrossando poco a poco. Ho dimenticato a casa i guanti. Lo faccio sempre, prima di darmi dell’imbecille e ripromettermi di non farlo più.
Faccio l’ultimo tiro e lancio via la cicca facendo leva con il medio sul pollice. Fa proprio freddo, lo sento nelle ginocchia. Mia madre lo dice sempre. I jeans sono i pantaloni peggiori potessi scegliere. Freddi d’inverno e caldi d’estate. Be’, ma almeno in autunno e in primavera sono perfetti.
Ma piuttosto che darle ragione, perdo la sensibilità delle gambe. Quest’anno poi, che dicembre è arrivato subito e l’autunno è stato particolarmente rigido. Dicono che andrà peggiorando con gli anni. E se non ci mettiamo un po’ d’attenzione, rischiamo di non far nascere i nostri nipoti. O pronipoti. O pro- pronipoti.
Tanto, ora che arriveranno i miei pro- pronipoti, una soluzione, l’avranno già trovata. Va be’. Staremo a vedere.
Noi, io e Emily intendo, quest’inverno, ce lo stiamo vivendo a fondo. All’aperto, in piazza. Stanno succedendo un sacco di cose, bisogna dire che non siamo d’accordo. Vogliamo dire la nostra.
Vogliamo? Io voglio stare con lei, questo mi basta. Ci vuole fegato per volere tutto.
Quando Emily arriva, battendo i tacchi sull’asfalto, i capelli corti e la sua borsa, mi dimentico di ogni cosa. Si apre in un sorriso che mi riscalda, si è appena truccata le labbra.
“Sei qui da molto?”
“No, appena arrivato”, mento. Batto i denti e inizio a credere all’ipotesi del principio di congelamento.
Lei mi tira a sé e si alza sulle punte dei piedi per baciarmi una guancia. Ma quando mi sfiora una mano, si accorge che è particolarmente fredda.
“Ma sei ghiacciato!”
“Guarda il lato positivo. Mi sto conservando meglio”
Sembro addirittura contento. Non c’è mai fine alla menzogna. Ho paura persino ad aprire la bocca. Se lo facessi, con il freddo che fa, rischierei di perdere i denti. E, di certo non potrei scambiare una vita a gelato e semolino con un semplice sorriso. O no?
Emily si giustifica. È arrivata in ritardo perché era al telefono con un suo compagno d’università. Dice che alle quattro e mezza hanno appuntamento in Piazza Fontana. Deve darle degli appunti, perché non è andata a qualche lezione, dice.
Il fatto è che Emily, a lezione, non ci va mai. Studia lingue, visto che sua madre è originaria della campagna londinese.
“Io studio lettere classiche, ma questo non significa certo che mio padre sia Omero”, le dico ogni volta che si giustifica in questo modo.
Fatto sta che a prendere gli appunti ci dobbiamo andare, non si scappa.
Per fortuna abbiamo un po’ di tempo a disposizione. Non troppo, ma abbastanza.
“Facciamo una passeggiata?” mi chiede senza volere davvero una risposta. Mi si mette sottobraccio e ci avviamo verso piazza del Duomo. Parliamo a pochi centimetri di distanza, le mani che gesticolano e poi corrono di nuovo nelle tasche. È appena uscito un nuovo disco che io non ho ancora sentito, e mi becco un rimprovero per questo.
“Ci sono delle cose che bisogna assolutamente fare. O le fai, o sei fuori”, e io mi chiedo se sia davvero possibile stare dietro a ogni cosa. Sta cambiando tutto, dentro e fuori. Io non ce la faccio a stare dietro a questo 1969.
Così, per rimediare, parlo del Natale. Funziona sempre. Tanto più che le feste sono a ridosso.
“La notte di Natale, i miei mi costringeranno ad andare a Messa a mezzanotte. Ogni volta provo a evitarla, ma sembra un’evasione da un carcere. Niente da fare. E devo violentarmi per non addormentarmi e cadere a peso morto su quelli che mi stanno vicino!”. Ride, continuo.
“Perché poi, c’è quest’aspetto strano delle Messe di Natale. Nessuno sa i canti, ma tutti vogliono cantare. E allora, solo la fine delle parole, in uno strascico che sembra un lamento dei gatti…” ride ancora, continuo.
“Che poi la gente nasconde gli sbadigli a bocca aperta, quelli che ti appannano gli occhi, nei sorrisi enormi rivolti verso persone che si vedono solo in certe occasioni e…”
“Io andrò dai miei parenti a Londra”.
Resto di sasso. Pensavo persino di farle un regalo.
“Non so se si faccia nemmeno il cenone. Io, a Londra, non ci sono mai stata”
“E allora vedi che devi studiare all’Università, ché non sai un cazzo!”
Ok, lo penso ma non glielo dico.
Attraversiamo Piazza Mercanti come se attorno a noi non ci fosse nessuno. La gente scorre battendo a malapena i piedi sulla pavimentazione. Sembra quasi che voli, tanto sembra leggera. O forse è a noi che non interessa e, credo, se qualcuno potesse ribaltarci come in quelle sfere trasparenti in cui c’è la Milano ricordo per i turisti, potrebbe anche mettersi a nevicare.
Proverei un’immensa dolcezza per questa immagine, se solo riuscissi a spiegarmi come diavolo facciano gli inglesi a mangiare le patate con la buccia.
“Non è per tua nonna, chiaro. Ma che incivili! Da che mondo è mondo, lo sanno tutti che le patate, si sbucciano prima di mangiarle!”, ma lei non è per niente d’accordo.
Figurarsi. Mi insulta quasi, quando mi dice che sono ancorato alla mia cultura, che ci manca solo che le dica che tutto il mondo è paese, e invece adesso bisogna aprirsi e provare.
“Non è questione di culture. Il punto è che la buccia si toglie. Semplice! Tu le arance le mangi con la buccia?!” e non mi accorgo che, nella discussione mi sono messo a gesticolare come un matto. Disegno patate nell’aria e mimo lo sbucciamento. Per fortuna l’attenzione di Emily è tutta centrata sulle mie dita. Non avrei saputo come raccapezzarmi, in un discorso del genere.
“Che dita rosse” mi dice. Io non faccio altro che annuire, ma non riesco ancora a metterle nelle tasche che lei si sfila i guanti e le prende le mie mani tra le sue.
Sono abbastanza calde e la cosa sembra funzionare.
Sollevo appena lo sguardo e cado nei suoi occhi. Il sangue mi sale al collo, lo stomaco si chiude e quasi comincio a sudare. Sarà influenza?
Con un gesto deciso, sfilo le mani dalla sua presa e me le rificco in tasca. Calco fino ad incurvare le spalle.
“Meglio non esagerare…ché se poi ho un principio di congelamento, chi mi porta all’ospedale?”
Non poteva esserci modo più goffo di recuperare la situazione.
Lei mi sorride, per fortuna con tenerezza e non con compassione. Ritorniamo a parlare del più e del meno, solo in maniera più sobria.
Forse, avrebbe voluto che la baciassi.
O forse lo avrei voluto io, che lei lo volesse. Ma questi sono discorsi da sciocchi. Certe cose non si sapranno mai.
Però, se anche lei l’avesse voluto, magari sarebbe stato tutto più facile.
Stasera Piazza del Duomo si mostra sotto una veste leggera di nebbia e smog. Sembra quasi di essere parte della storia della città, con i fanali rotondi delle 500 e i lampioni gialli, con le insegne natalizie dei negozi e delle vetrine, che non sai mai se ti invitano o ti vendono la felicità. Ma a me quella felicità non serve, perché in questo momento tutto quello che voglio è avere ancora freddo, che l’inverno duri ancora molto, perché io possa dimenticare ancora i guanti e lei possa stringermi ancora le dita.
Attraversiamo tutta la piazza, giocando a non calpestare le righe segnate dalle piastrelle del sagrato. Lei ride e saltella, io non riesco a farlo. Un tallone, una punta, un piede insomma, mi frega sempre. Deve essere una cosa genetica. C’è gente che non riesce a fare la U con la lingua e io non riesco a non pestare le linee.
O forse è una forma di comunicazione aliena, che mi impedisce di coordinare i movimenti. Che fortuna, si sono scelti il tizio giusto. Che non sa l’inglese e che parla una delle lingue più articolate della terra.
E se si presentasse davanti a me un marziano? Penserei che è uno sballato e gli tirerei un pugno. Sicuro.
Bel modo per cominciare i rapporti.
E poi, dal lato dell’alieno, dopo un’accoglienza così, è naturale che mi faccia fuori. Con tutta la mia razza di trogloditi violenti ignoranti. Perché lo sanno tutti che gli alieni sono secoli davanti a noi. Basta un attimo e pum!, tutti morti.
Che angoscia! Che responsabilità!
“Che gioco scemo”, dico. Emily si ferma e mi tira a sé. Non mi ha nemmeno ascoltato. Per lei, il gioco è finito da un pezzo.
“Guarda quella donna con quel bambino, lì” e con l’indice mi indica due corpi, di diversa misura, imbacuccati in cappotti e sciarpe color cammello. Le gambe spuntano magre da sotto. Sono fissi davanti alla vetrina e il più piccolo si sta riempiendo gli occhi di giocattoli come mangiasse venti castagne contemporaneamente.
Mi sembrano due arancini fritti male giganti.
Non esito a farlo presente.
“Che scemo, che sei!” e mi parla dello Spirito del Natale, dell’attesa che fa aumentare del desiderio.
“Altro che Sabato del Villaggio!” faccio io. Ma lei continua, e dice dei conti nella busta della tredicesima perché il figlio possa credere ancora a Babbo Natale e la mamma possa aspettare i saldi. E aggiunge pure che in quegli sguardi ci sono tutti gli elementi del Natale, il cenone, la famiglia, i maglioni di lana pesanti, le corse con i cugini e l’odore dei camini e della legna.
“La mia maestra, alle elementari, ogni anno portava il calendario dell’Avvento. Quello con un cioccolatino per ogni giorno. E ciascuno, nel giorno che corrispondeva al suo numero di registro, andava a prendersi il suo cioccolatino. Io ero il 23, l’ultimo dell’elenco. Non lo prendevo mai, il cioccolatino, perché il 23 era il primo giorno di ferie”. Quasi mi metto a piangere.
Mi fa una carezza di lana, col guanto.
“Poverino”
“Poverino un cazzo! Quella stronza se lo mangiava lei, scommetto... adesso la vado a prendere e mi faccio dare 24 anni di cioccolatini arretrati!”
“Ma sarai scemo!”, e ride ancora.
Le quattro e mezza sono passate da un paio di minuti, bisogna correre.
Non capisco come mai Emily arrivi sempre puntuale agli appuntamenti con gli altri e mai a quelli con me. Cos’è? Lo fa apposta? Ce l’ha con me?
Ma non è il caso di fare polemica, non ci riuscirei, ho già il fiatone.
All’angolo con il palazzo dell’Arcivescovado, prima di entrare in Piazza Fontana, c’è un baracchino ambulante dal quale sale del fumo.
L’odore delle caldarroste mi rapisce e mi fermo. Le voglio.
“Prendo le castagne” le dico e lei mi risponde con un gesto che va bene.
“Bella ragazza” afferma soddisfatto il venditore, “Complimenti!”
Come se fosse merito mio. È la mia luce che la rende bellissima, ovvio. Che sciocchezze.
Però non posso fare a meno di ringraziare. Anche perchè me le regala, le castagne. Con la bellezza si aprono tutte le porte, è proprio vero.
Mi fermo all’angolo tra via dell’Arcivescovado e Piazza Fontana e faccio appena in tempo a individuare Emily che parla con un tizio davanti alla Banca dell’Agricoltura. Che tra l’altro ha una sciarpa rossa come la mia.
Non so ancora se provo un filo di gelosia o forse d’invidia, che un bagliore mi investe e le vetrine della Banca si gonfiano come bolle di sapone. E poi, proprio come bolle di sapone, esplodono.
Il calore delle caldarroste mi scotta le mani. Le lascio cadere a terra. Tutte quante.

Magari, se avessi avuto i guanti, non sarebbe successo.

giovedì 20 dicembre 2007

QUATTRO

Nel capitolo tre: che strano, sto tizio. Mi parla di cose che non mi riguardano. Che sembrano non riguardare nemmeno lui. E anche questa cosa della pensione. Di quello che ha fatto il vecchio. Forse è solo tristezza, la sua.
Ma lo sarei anche io! Tutto il giorno tra la radio e le troie! E senza la radio!
Però, c'è qualche cosa che manca.
Nel senso. Se non fa niente, la colpa è anche sua. Mica può sempre essere rose e fiori.
Ma succede sempre qualcosa, no?
Sempre, no?
No?


E poi, una mattina, pioveva veramente forte e la macchina non voleva saperne, di partire.
"Accidenti. Cominciamo bene la giornata" dissi. E se “accidenti” non era proprio la parola esatta, il concetto era quello.
Ci volle un po', una mano da parte di un buon condomino, qualche spinta e una seconda inserita di colpo.
“Forse è tempo di cambiarla” mi fu detto. Ma si accese, alla fine, e non ci furono più problemi.
I tergicristalli correvano zoppicando sul parabrezza, l'acqua sembrava oliata e quasi non mi permetteva di vedere la strada. Sapevo che avrei dovuto cambiare le spazzole, ma avevo rinviato la cosa fino a quando non sarebbe stata un'operazione inevitabile. E adesso lo era. Ma mentre notavo l’inefficienza del meccanismo, mi chiesi perché dovessi lasciare giungere le cose fino al fondo, prima di cercare una soluzione.
Non vedevo proprio un cazzo.
Arrivai al bar poco prima delle nove, come al solito. Le strade di Milano sembravano ingolfate e le persone aspettavano solo di arrivare negli uffici ascoltando la radio. Qualcuno si innervosiva come è abitudine, e si lasciava andare in irruenti pressioni sul clacson. L'aria si faceva pesante sotto gli scarichi delle automobili e diventava sempre più difficile vedere sedili pieni di persone.
Gli autobus e i tram, avvantaggiati dalle loro corsie private, ci superavano e sembravano deriderci. L'unica consolazione era data dal fatto che chi guida un autobus avrebbe potuto lavorare anche a Natale o a Capodanno. Magra, ma pur sempre una consolazione.
Mi preparai il caffé e la sambuca da solo, senza rivolgere la parola a nessuno. Non sapevo nemmeno se avessi salutato entrando, o se invece non c’era nessuno all'interno del bar. Ma non me lo chiesi, non era certo una priorità. Avevo i piedi bagnati, e tutti sanno quanto si diventi irritabili coi piedi bagnati e con le calze aderenti come guanti da chirurgo.
Per terra, davanti alla porta di ingresso qualcuno aveva sparso della segatura. Che ora mi si era attaccata alle scarpe, formando una sorta di suola morbida e silenziosa. Volevo disfarmene, e lo avrei fatto se solo avesse avuto un senso. Ma sarei stato punto e a capo di lì a poco.
Me ne feci il sangue amaro, visto che non conoscevo il responsabile. Per quello che servivano le scarpe, lì dentro, potevano anche togliersele. Che nervoso, anche se poi lasciai perdere.
Passarono un paio d’ore e l'inverno cominciava a farsi vedere, più che sentire. La porta d'ingresso chiusa in maniera ermetica, le bottiglie rimanevano nel frigo e nessuno le richiedeva quasi più. Solo pochi avventurieri domandavano una birra.
Capii che era cominciata la stagione dei punch al mandarino quando vidi passare sul marciapiede una madre ed un figlio coi cappotti e le sciarpe calcate fin sulle orecchie. Per istinto mi presi le mani e cominciai a strofinarle, come se le sentissi fredde.
"Non è più il momento di pensare alle gite", dissi con un sorriso meschino sulle labbra, come se stessi prendendo in giro tutte le famigliole della domenica pomeriggio. Erano insopportabili per il semplice fatto che erano scontati. Genitori e figli, tutti col cappotto uguale, che ingloba mani e braccia, colli e gambe. Si vedono solo i polpacci e i piedi.
Come olive ascolane giganti su due stuzzicadenti.
Nemmeno ai tempi dell'università, in vacanza con gli amici, ero soddisfatto. Attendevo l'inverno per poter programmare una nuova estate e, in estate, non ero mai contento a pieno delle mie scelte. E volevo rimettere su i guanti, per poter parlare con qualcuno davanti ad un the caldo di un viaggio necessario da fare. Per ritrovarmi nella sensazione di solitudine che solo la primavera e gli autunni sanno dare. E in tutto questo, mi lasciavo trascinare dagli entusiasmi degli altri.
D'improvviso entrò un postino. Nel bar. Che strano, pensai, durante il lavoro. Che cazzo di perverso, ma sorrisi come ormai era diventato naturale. La spontaneità, in un posto come il mio, era cosa ormai artificiale e scontata.
Il signor Anselmo mi aveva insegnato a seguire una delle massime di Confucio: “Fatti i cazzi tuoi”.
Dalla radio partì una canzone accompagnata dal pianoforte di un musicista ben noto.
Il postino si sedette su uno sgabello davanti al bancone e le mani si avvicinarono alla macchinetta del caffé.
“Che tempo cane” disse. “Sono già stanco e non è nemmeno finita la mattinata.”
“Guardi, ora non c’è nessuno. Ma qualche minuto e arriverà un bocconcino…” mentii pur non sapendo quali fossero i turni.
"Non importa, grazie."
"Ma accetti. Fuori piove in maniera inverosimile, si dia tregua".
Era in imbarazzo, evidentemente conosceva il posto e ciò che ci succedeva dentro. Ed entrambi sapevamo che era fuori legge. Ma accettò di buon grado la pausa, posò la sua borsa carica di carta sul bancone e mi chiese una correzione al caffé.
"Grappa?" domandai, ma senza aspettare la risposta. Gliene versai abbondantemente, perché si sciogliesse. Avevo voglia di un interlocutore ordinario. Da come voleva sviare l’argomento, sapevo che non era un abituale frequentatore di prostitute.
Assaporò l'odore che saliva dalla tazzina, prima di bere. Lo facevano in pochi ormai, era una tradizione che col tempo si era persa. Poteva essere un gesto banale e conosciuto, snob per alcuni, ma in realtà è il naso che dà il vero sapore al caffé. Sorrisi e lui ricambiò. Sapevamo entrambi quanto facesse piacere riconoscere un gesto. L’idea di avere un legame antico probabilmente, ma anche la consapevolezza di essere un gradino sopra la massa. Nell’intesa che c’è tra due persone, quando una delle due sta appena per andare a farsi una scopata. E l’altro lo sa.
Si guardò attorno e, dopo qualche commento sul tempo e sui programmi televisivi, mi consegnò una busta.
Era di uno studio legale, per lo meno l'intestazione. Rimasi molto perplesso. La tenevo con entrambe le mani senza quasi riuscire a respirare. Nella mia testa, nemmeno una scimmietta che suonasse uno strumento.
"Guardi. Di solito è una convocazione alla lettura di un testamento.”
Che figuraccia. Quel povero cristo stava solo lavorando. E io ammiccavo. Mi avrà scambiato per un frocio. In certi posti girano. Sbarrai gli occhi e chiesi scusa.
“Ah. Io pensavo…”
“Non si preoccupi. Quanto le devo, per il caffé?"
"Offre la casa" risposi. Giusto per rimediare alla gaffe.
"Grazie. Arrivederci, allora", disse ondeggiando la mano e infilandosela subito in tasca.
Ma non risposi, preso dalla curiosità e dalla paura che infondono tutte le questioni istituzionali.
Mi venne in mente il processo di Kafka, e ne fui intimorito.
La busta conteneva veramente la convocazione alla lettura di un testamento. Pensavo che queste cose succedessero solo in America.
Era per lunedì mattina. Avrei dovuto prendere un permesso.

giovedì 13 dicembre 2007

TRE

Nel capitolo due: in effetti ne parla con un po' di nostalgia, di quei giorni nel bar. Con le abitudini e i piccoli gesti che si ripetono nei giorni. E in fondo è anche giusto. Perchè uno vede intorno a sé solo ciò che, alla fine, vuol vedere. E grande doveva essere anche l'affetto per quell'Anselmo, e per i suoi incontri sottovoce con quel commissario Scacchia dall'impermeabile sottile che, di tanto in tanto, lo veniva a trovare. Per parlar di qualcosa, sottovoce, che nessuno sa.
Ma forse, la cosa che più deve averlo ferito, è stata la scelta del vecchio di andare in pensione. Di punto in bianco. E dirlglielo confessandogli il piccolo segreto di un'amore con la donna del bar di fronte. Per la quale aveva preso l'abitudine di macinare il caffè ogni mattina, con quell'odore che gli è rimasto addosso per una vita. Come fosse una specie di contrappasso per chi lavora con l'amore mercenario, non avere mai un amore reale.
E poi, la Cinquecento bianca del vecchio si era allontanata nella pioggia, lasciando il tizio così. Cacciato dal bar della donna con una manciata di cioccolatini rubati. Un gesto di rivincita per un uomo che non avrebbe visto più.
Chissà come son diventate le cose, poi.


Io, il suo posto, non ero stato in grado di prenderlo. Giustificarmi dicendo che non ero stato in grado però, non sarebbe del tutto corretto. Più semplicemente, non avevo fatto nulla, avevo lasciato che le cose scivolassero via da sé. Avevo lasciato che la radio, giorno dopo giorno, venisse trascurata e la televisione fosse sempre accesa. Forse perché per me non c'era alcuna differenza. Forse perché io, la mia razione di radio quotidiana, ce l’avevo: ore 8 , ore13 e ore 19 radiogiornale.
Cascasse il mondo.
E avevo anche lasciato che le puttane mi avvicinassero e si prendessero anche una certa confidenza.
Ero convinto che le lezioni del signor Anselmo, le avessi interiorizzate. Senza nemmeno il bisogno di ripassarle di tanto in tanto.
Anche perché le conoscevo ormai tutte, le signorine che passavano di lì. Non erano più di una decina, ma sembravano mille. Ora che non avevo più il riferimento del signor Anselmo, ora che non dovevo più imparare guardando, la mia attenzione si era spostata verso l'esterno. Lasciando l’interno del bar alle puttane e ai loro clienti. E quelli, i clienti, sì che avevo imparato a conoscerli bene.
I loro gesti di imbarazzo e di timore ormai li sapevo anche io a memoria.
Ero il solo punto nuovo, lì dentro. Bastavo alle signorine, da osservare. E, ad essere sinceri, non mi dispiaceva poi tanto essere il centro dell'attenzione, sia che venissi preso in giro, sia che mi chiedessero una qualche bevanda particolare. Nel giro di pochi mesi, avevo mandato a mente cosa ciascuna di loro preferisse. Amaro nazionale per una, per un'altra un succo di frutta, per un'altra ancora un Chivas. A volte me ne versavo anche io e mi sedevo accanto a loro. Ma non per parlare, semplicemente per sentirmi meno solo. E ascoltavo e ascoltavo, ore e ore, giorni e giorni. Senza mai lasciarmi andare, proprio come mi aveva insegnato il signor Anselmo. Come un prete che confessa i propri parrocchiani. Loro parlavano ed io pensavo alle partite di pallone. Non c’era un motivo particolare.
Forse, soltanto bisogno di un contatto. Prima, per lo meno, c’era il signor Anselmo a darmi retta, a reggermi il gioco. Ora, invece, non mi restavano che loro.
Era stato gioco forza allentare la tensione.

giovedì 6 dicembre 2007

DUE

Nel I capitolo: l'ha presa un po' alla larga, la sua storia, questo qui. Però è anche piacevole sapere cosa facesse a Milano. Dice che lavorava in un bar di un locale ad ore, insieme ad un vecchio, il signor Anselmo. Il suo mentore, insomma, che fondamentalmente lo ha traghettato nel 'mondo del lavoro'. Mah. Ce ne son di lavori strani.
Però doveva essere anche un bel tipo, lui. Che girava per Milano con un'Alfetta gialla del '75 e che parcheggiava per stile, a suo dire, negli spazi riservati agli handicappati. Come fosse normale. Alfetta gialla più strisce gialle. Per far pendant.
Un po' mi piace, e un po' mi sembra deficiente. Chissà perché me le racconta a me, certe cose.
Ma sì, ma tanto è ancora presto. Facciamolo andare avanti.




Lavorare in un bar di un albergo ad ore è diverso dall'essere un barista normale. I meccanismi sono diversi. Gli occhi sono diversi. Nei volti dei clienti da subito si vede se parleranno con le ragazze, se la loro prestazione sarà accettabile o se hanno il cazzo piccolo. Sono cose che si imparano col tempo e tra le piccole rivelazioni delle donne, mentre versavo loro il bicchiere di Coca Cola utile a bruciare la merda che avevano nello stomaco.
La cosa particolare del signor Anselmo era il fatto che profumasse di caffé appena macinato. Pensavo che lo tritasse prima di uscire di casa e che l'odore gli si incollasse addosso. Che la sua casa e i suoi vestiti fossero impregnati di quell'abitudine, perpetuata come un rito negli anni.
In fondo, non era poi così strano che un uomo, solo per giunta, potesse avere delle abitudini così vincolanti. In fondo poi, a chi doveva rendere conto, se non a se stesso?
Le giornate passavano tra sorrisi e quattro scambi di parole, nulla di profondo sia chiaro, poiché l'unica cosa che era considerata profonda, lì dentro, erano le gole delle stanze in attività.
Ma il signor Anselmo mi guardava e mi conosceva ogni momento di più. Parlava e si rideva, non parlava e cadeva un silenzio privo di imbarazzi. Dalla cura della sua barba avevo imparato a mia volta il suo stato d'animo, dagli sguardi che metteva negli occhi delle donne capivo il suo rammarico.
Credevo che ne avesse viste tante negli anni, credevo che avesse capito il mondo. E credevo che, come me, credeva che il mondo fosse veramente brutto.
Era appena arrivato un ottobre insieme a un cielo era bigio e pesante, come spesso accade a Milano. L’ora del radiogiornale sanciva la fine del nostro turno. Per la prima volta, gli occhi del vecchio barista mi guardavano senza spessore. Sembravano tristi come due bicchieri vuoti, l'uno accanto all'altro. Senza null’altro da offrire, se non il tavolo attraverso il vetro.
Spesso accadeva che entrasse un tipo particolare. Non salutava mai, con il suo impermeabile crema tanto liso che sembrava trasparente. Avrei scommesso che, appallottolato, ci sarebbe stato in un pugno. Prendeva il signor Anselmo da parte e parlavano per diverso tempo. Il signor Anselmo, non appena lo intravedeva dall’opaco della vetrina, lanciava la macchina del caffé e preparava una dose di grappa in un bicchiere a parte. Il tizio entrava a si sedeva al primo tavolino libero che gli capitava. Si sfilava il soprabito, lo poggiava sullo schienale della sedia accanto alla sua e aspettava. Pronto il caffé, con la grappa nell’altra mano, il vecchio lo raggiungeva al tavolo e per un po’ parlavano. Sembrava una chiacchierata tranquilla, il tizio faceva domande e il signor Anselmo rispondeva. Il tutto sottovoce, come fossero segreti di vecchi amici. Il tizio rideva e il signor Anselmo abbassava gli occhi.
Mi aveva detto che era un commissario, Scacchia di nome, e che lavorando in un posto così bisognava aspettarsi che le forze dell’ordine giungessero a controllare. E che esigessero un trattamento di riguardo. Infatti, caffé e grappa erano i soliti omaggi della ditta. Tuttavia, non mi era chiaro il tono da sfottò che veniva usato in certe circostanze. Ma non importava, diceva il signor Anselmo, sono cose che capitano. E poi si conoscevano da anni, la cosa era più che rodata.

"Sono stanco", mi disse mettendo il bicchiere e le due tazzine nel cestello della lavastoviglie.
Ero stanco anche io e, da sciocco, pensai che fosse una delle stanchezze di tutti i giorni.
Scosse la testa, come fanno gli zii di fronte alle leggerezze dei nipoti.
"Domani non verrò. E nemmeno dopo domani. Mi sono stufato".
Ne fui scosso. Luana, una puttana grassa e presuntuosa che non veniva mai scelta, scoppiò a ridere.
"Finalmente ce lo caviamo dalle palle, 'sto vecchio!"
Fui tentato di gridarle addosso, ma non ne valeva la pena.
Il signor Anselmo mi fece cenno con la mano di lasciar perdere. Inarcò leggermente le labbra verso il basso, con un disprezzo tale che soffocò la gola di Luana in un silenzio piatto.
Accese una sigaretta e la strinse tra i denti.
“Come fanno gli anarchici” di solito diceva ammiccando quando mi scopriva ad osservare quel gesto. Nel tempo in cui era stato al bar, forse per non urtare la suscettibilità dei clienti, non aveva mai espresso idee politiche, a pensarci. Ma probabilmente era troppo poco, quel gesto, per poterlo ricondurre a una qualsiasi corrente di pensiero.
Mi chiese di accompagnarlo a bere qualcosa in un bar poco distante, che aveva guardato tutti i giorni, ma in cui, negli scorsi quarant’anni, non aveva mai avuto il coraggio di entrare. Accettai, visto che in fondo non mi costava nulla. E, in fondo, non l'avrei più rivisto. Né lui, né il bar.
Dopo gli abituali addii e le frasi di circostanza, uscimmo. Cominciava a piovere, ma non ce ne preoccupammo. Nel silenzio più assoluto, cambiammo bar e mi stupii del fatto che salutasse la cassiera chiamandola per nome. Poteva avere venti anni meno di lui e, da come si erano guardati, sembravano conoscersi bene.
"Ma non avevi detto che non c'eri mai entrato?" gli chiesi quasi a prenderlo in giro.
"Non ci sono mai entrato, ma il caffé lo compravo ogni mattina fresco e appena macinato sempre per lei. L'amavo" mi rispose in modo secco, da marinaio.
“E poi lei era giovanissima, bellissima. Pensa, la spacciavo per mia nipote per non dare nell’occhio.” Rise con una mano sugli occhi.
E in quattro parole, come al solito, mi disse tutto. Che era stato fidanzato con quella donna, mi disse, che l'aveva conosciuta anni addietro, quando ancora a Milano ci si spostava a piedi. Il cuore pulsante della città allora spingeva i tram lungo le sue arterie, non le macchine. Che era durata tanto, ma poi le cose cambiano. Che lei pensava si potesse recuperare, che si potesse scegliere di tornare ad amare qualcuno che si era lasciato. E che, qualche tempo dopo, si era messa a lavorare lì per potersi vedere tutti i giorni come estremo tentativo disperato.
“Si sa che da giovani, per amore si è pronti a tutto”, dissi.
E proprio per questo, lui l’aveva lasciata per una signorina che batteva sulle strade, nell’illusione di tirarla fuori dal giro e di sposarla.
"Sciocchezze che nascono nel cuore degli innamorati"
Per lei aveva lasciato tutto e aveva iniziato a lavorare dove da ora avrei lavorato solo io.
“L’unica cosa che mi è rimasta di lei è il piacere per il caffé appena macinato”
E questo il motivo di quell’odore pregnante, pensai con quanta più banalità potevo trovare nelle mie tasche.
"Ma chi ama per denaro, non conosce l'amore per l'amore".
Aveva lo sguardo di chi doveva dare una spiegazione per forza, e non stava a me deluderlo.
"Per questo, la storia della non confidenza eccetera?" domandai.
Si limitò ad ordinare due birre medie, chiare. "Quali c'avete? Sì, quella lì va benissimo", e mi citò un monologo di Gaber, sorridendo come a ricordare un vecchio amico.
Bevemmo in silenzio. Solo alla fine di entrambi i bicchieri e delle sigarette di ciascuno, mi rivolse ancora la parola.
"Ragazzo, lascio tutto quello che faccio nelle tue mani. Decidi qual è il limite della decenza e decidi qual è il limite della tua autorità. Devi saperti far rispettare, non farti mai mettere i piedi in testa. Il nostro compito è servire. Siamo camerieri, in fondo, ma non siamo servi. E' una sottile differenza, ma è come quando mastichi e ci si morde la lingua. Non te ne accorgi, ma quando vai appena oltre, già fa male".
Non disse altro e io pensai che si riferisse solo al bar. Lasciò dei soldi sul tavolo, mi diede una pacca sulla spalla ed uscì. Gli dissi addio come per istinto, salutandolo appena con il braccio e seguendolo con gli occhi accendere la sua Cinquecento bianca e allontanarsi dopo l'ultimo turno.

Le gocce di pioggia cominciavano a battere con insistenza sulle vetrine del bar, rovinando i contorni delle macchine che passavano.
Di persone in giro, non ce n'era nemmeno l'ombra. Qualche piccione si aggirava sui marciapiedi cercando forse qualche briciola da mangiare. Che esistenza misera.
La tristezza dell'autunno oramai stava prendendo gli alberi e la natura. Le foglie cadevano pesanti d’acqua con i miei rimorsi, per non esser nemmeno riuscito a ringraziare quel vecchio che mi aveva dato tanto.
Nelle scuole gli studenti giravano a testa bassa, sotto il peso più dei libri che delle interrogazioni.
I ricordi ancora caldi si erano persi nella lingua di qualcuno che aveva avuto persino il coraggio di innamorarsi.
"Può uscire, per favore?" mi disse seccata la cassiera.
"L’educazione?" domandai acido.
"Questo è il mio bar e faccio quello che mi pare. Nessuno la obbliga a entrarci”, mi rispose con un certo disprezzo tra le palpebre. Si alzò e si allontanò, nel retro. Non aspettò che uscissi.
Per vendetta, affondai la mano nel cestino pieno di cioccolatini a poche lire accanto alla cassa, e cercai di portarne via il più possibile.

giovedì 29 novembre 2007

UNO

Nel prologo: ho incontrato un tizio mentre aspettavo il tram. Non sembra uno di cui diffidare. Certo, non è nemmeno uno cui darei tutti i miei soldi, ma sembra un povero cristo come ce ne son tanti. Dice di essere appena tornato a Milano dopo tanto tempo. E mi ha invitato a bere un bicchiere insieme. Si vede che ha voglia di quattro chiacchiere. Deve essere un uomo solo, fondamentalmente. Lo ascolto. Perché no.
Bene. Adesso inizia.




Come tutte le mattine, la sveglia suonò due minuti prima del radiogiornale delle 8. Appena il tempo per tirarmi su dal letto, per rendermi conto di chi fossi, e poi spazio all'informazione. Amavo quel modo di capire il mondo, senza critiche o opinioni.
Se dovevo rovinarmi la giornata, volevo farlo in modo oggettivo.
Quindi mi alzavo e mi preparavo. Sempre nella solita maniera. I ritmi erano dettati dallo scadere delle lancette, minuto per minuto. Otto minuti seduto sulla tazza, quattro o cinque pagine di un libro, dieci minuti per fare colazione, due dei quali per fare uscire il caffé. Sapevo bene che la fiamma avrebbe dovuto essere al minimo per una migliore riuscita della bevanda, ma il tempo scarseggiava. Quello, era un vezzo della domenica.
Dopo una buona sciacquata generica e un paio di spruzzate di deodorante sotto ciascuna ascella, salivo in macchina per andare al lavoro.
Avevo un box proprio sotto casa, che ogni mattina aprivo con il più grande piacere. Mi godevo la vista della Vespa parcheggiata sul fondo, che ormai era ferma da tantissimi anni, e il culo a fanali quadrati della vecchia Alfetta gialla immediatamente davanti a me. All'inizio la parcheggiavo in retromarcia, in modo tale da avere il muso aggressivo in faccia, per cercare di raddrizzare in qualche maniera la giornata. Poi ho visto che il tubo di scappamento anneriva il muro e lo scooter.
Mi pianse il cuore, ma cambiai abitudine.
La Vespa, l’avevo comprata con i primi guadagni dei lavoretti estivi. Pensavo di desiderarla come non mai, ma il freddo e la pioggia ebbero la meglio e, giorno dopo giorno, la usai sempre meno. Fino a quando non venne più pagata l’assicurazione e lo scooter fu lasciato alla polvere del box.
La macchina invece, l'avevo ereditata da mio padre. L'aveva amata come poche altre cose nella sua vita, dalla primavera del 75 in poi, quando l'aveva comprata per quasi tre milioni e mezzo di lire.
Ma ad un certo punto gli occhi non gli permettevano più di guidare.
"Te l'affido" mi disse un giorno a pranzo, e mise le chiavi sotto il piatto guardandole da dietro le lenti spesse, vere responsabili di quel gesto. L'aveva lavata in maniera minuziosa, nevrotica quasi.
Per l’ultima volta. Con lo stuzzicadenti, aveva persino ripassato la croce e il biscione dello scudetto. Perché risaltino e i colori non si rovinino.
Quando ero bambino, e la macchina era la stessa, la domenica mattina venivo svegliato dal modo in cui la lucidava. Se il panno sulla lamiera non faceva lo stesso suono che il pollice di mia madre faceva passando sui piatti, allora non era contento. Allora non si lavava bene. Ma lavare una pirofila è un conto. Lavare una macchina di quattro metri è un altro paio di maniche.
Però ormai era un veicolo di interesse storico ed il fatto che fosse stata la macchina di mio padre mi inorgogliva non poco. Ma non tanto per il fatto che fosse stata di mio padre, quanto perché era perfetta in ogni suo particolare.
La gente era affascinata dalla storia di una passione che si tramanda di genitore in figlio, anche se non era vero niente. Perché la gente vuole sentire delle belle favole, e io non mi sentivo proprio tanto presuntuoso da negargli questo piacere da poveri. Mi piaceva gonfiarmi come un pesce palla.
Mi ero addirittura iscritto in uno dei club di auto storiche per potermi semplicemente pavoneggiare. Era un'auto talmente trattata bene, che pareva nuova. E come lo sapevo io, lo sapevano gli altri.

Vestito di tutto punto, dopo qualche decina di minuti dietro a fanali rossi di altre automobili in fila dietro segnali rossi di altri semafori in fila, sistemavo la macchina sul parcheggio riservato agli handicappati ed entravo. Il bar mi accoglieva sempre con un sorriso, il mio, riflesso sullo scaffale a specchio degli alcolici, tra il bancone e le signorine sedute lungo i tavolini del fondo.
Il locale sembrava un grande alambicco, stretto e lungo sul collo e con una pancia enorme in basso. Alla bocca c'era l'ingresso, lungo i due lati stretti c'era da un lato il bancone, dall'altro quattro tavolini con due sedie ciascuno. Attaccate lungo le pareti, le locandine di tre film che non mi piacevano ma ogni volta mi facevano sorridere: Tomas Millian su tutti, seguito a ruota da Shining e da Io sto con gli ippopotami. Non conoscevo bene il proprietario e mio principale, ma quanto a gusti cinematografici non doveva essere una cima.
Iniziavo alle nove, anche se non dovevo timbrare il cartellino. Il locale era già aperto, sembrava non dovesse chiudere mai.
D'altra parte, il signor Anselmo lo diceva sempre: "Non c'è un'ora sbagliata per scopare".
Come dargli torto.
Era stato lui a guidarmi dal mondo dell'Università, pieno di buchi come il cervello di chi è affetto dalla BSE, a quello del lavoro. C'era lui al colloquio col principale e alla firma del contratto. E c'era sempre lui ad ascoltarmi, quando non mi rendevo conto di come una striscia di inchiostro variamente orientata mi avesse garantito uno stipendio. E ancora, sempre lui mi aveva spiegato come funzionano le cose in un bar di un albergo ad ore.
"Con servizio in camera" diceva sorridendo, quando parlava delle signorine che aspettavano i clienti tra caffé e amari.
Arrivavo che la radio era già accesa. Avevo mutuato da lui l'abitudine al radio giornale. Solo la notizia, scarna e bruta. Era sia il gusto della velocità sia il gusto dell'oggettività. A me restava il compito di capire e aggiornarmi costantemente. Tanto più che sapere le cose dettagliatamente, prima e meglio di tutti, era sempre stato un mio vezzo. Al liceo, mi segnavo i passaggi principali dei libri che ci davano da leggere, divisi per capitolo. In maniera tale da poter recuperare immediatamente il punto e poter replicare all'insegnante con le stesse parole dell'autore. Una malattia, è ovvio.
La televisione, lì dentro, c'era, per carità. Ma era sempre spenta, se non per le partite di calcio.
E anche il quel caso, non c'era mai l'audio. Si ascoltava la cronaca da Radio Rai Uno.
Però, di calcio e della propria squadra, non si poteva parlare mai.
"E' un argomento caldo" mi ripeteva Anselmo, "e i clienti sono suscettibili su quest'argomento. E se si arrabbiano, c’è il rischio che non gli tiri. E se non gli tira, trattano male le ragazze".
Entravo, salutavo con un buongiorno generico i presenti e, mentre distribuivo i vari sorrisi neutri, il signor Anselmo mi preparava il primo caffé della giornata, con una spruzzata di sambuca. Il profumo inondava l'ambiente, come il passaggio di una donna d'alto borgo, e io mi avvicinavo al bancone. Lui scuoteva sempre la testa, senza salutarmi. Era il suo primo rimprovero quotidiano. Non sopportava il fatto che parcheggiassi nello spazio riservato ai portatori di handicap.
Ma non era nemmeno questo. In effetti, la mia non era pigrizia, perché sapevo che quel posto era libero. Come una cattiva abitudine portata avanti per anni. La mia era proprio stronzaggine, come mi diceva il signor Anselmo.
E con una ragione relativa.
“Stile” mi limitavo a rispondere.
Appoggiavo la sigaretta sul piattino, accanto al cucchiaino. Che non leccavo mai, nascondendo in quel gesto tutto l’odio che provavo nei confronti degli atteggiamenti sbagliati.
Lo guardavo, sorridevo, e dal modo in cui bevevo, capiva qual era il mio stato d'animo.
Spesso qualche signorina in attesa del suo prossimo turno, mi faceva qualche domanda. Se fossi fidanzato o meno, se avessi qualche desiderio o meno. Il signor Anselmo mi aveva insegnato a non dare troppa confidenza, poteva essere rischioso. Chiudeva gli occhi a fessura, come monito. Come un felino pronto a difendersi da un attacco. Anche quando quello attaccato ero io.
“È rischioso” ripeteva. "Innamorarsi di chi l'amore lo fa per lavoro, non porta mai a nulla di buono".
Non capivo perché dicesse ciò, ma mi fidavo a pieno e accettavo la sua regola.

mercoledì 28 novembre 2007

CINQUE ANNI DOPO

Non riesco ancora a capire come la gente possa apprezzare questa città. Milano mia, portami via, diceva Vecchioni. E chissà se almeno lui ci crede ancora in queste parole.
Io non capisco proprio dove possa portarti, in fondo, una città come Milano. Perché Milano ti castra, non riesce a darti nemmeno un’idea vaga di che cosa sia la vita vera. O ti mette su un altare, con le piogge che si appendono ai lampioni di via Dante e sembra che tutto sia preparato a festa solo per te. Oppure, ti blocca nelle code disumane delle cinque di pomeriggio, in quei coni d’ombra in cui nemmeno la radio si prende.
E la gente che ti urta, la gente che corre e non ha nemmeno voglia di darti delle informazioni. Forse Roma è diversa, forse Roma mi abbraccerebbe.
Ma in fondo no, non è questione di Milano. È troppo facile addossare la colpa a chi non si può difendere. Diciamocelo con chiarezza: la colpa è solo sua. Mi ha mollato così, senza dirmi nemmeno il perché. Bevendo dell’acqua, come se liquidarmi fosse una pillola contro il mal di testa. Forse avrei preferito che mi chiamasse al telefono. Senza il forse.
“Ciao. Sono io. Ti lascio. Non cercarmi più” e stop. Finita così. Un telegramma. Altro che farmi arrivare fin qui, fino a casa sua in Porta Ludovica. Altro che bicchieri d’acqua. Perché poi, quando una donna invita un uomo ad andare a casa sua, la prima cosa che viene in mente è un letto. E il sudore, l’affetto, l’odore della pelle che si mischia.
Mica uno pensa che lei ti voglia lasciare. Anche perché le cose andavano più che bene. Le cose, anzi, non erano mai andate così bene. Né un litigio, né una minima frazione.
Ecco, lo sapevo. Quando le cose vanno meglio, sotto c’è il tranello. Uno deve diffidare dei suoi migliori amici. Altro che aver paura della Polizia! La realtà è uno specchio. Non si capisce mai quello che ti vuol dire. Perché è ovvio. Ti trasmette, di riflesso, le immagini che tu gli proponi. E a volte anche di più. Uno dovrebbe essere in grado di dire: “Senti specchio. Sono davanti a te e tu adesso mi dici come mi sta questa maglietta”. E lui, no. Ti ributta addosso tante di quelle immagini, tante di quelle informazioni che la metà basterebbe a mandarti in tilt. La maglietta, i pantaloni, le scarpe, la libreria alle tue spalle, i colori del muro, gli interruttori, la giacca che hai lasciato appesa la sera prima, i libri messi lì alla rinfusa… tutto, ti trasmette. Come una segretaria iper diligente.
Invece, lo specchio dovrebbe capire che è solo una lastra di vetro. E in quanto tale, come una lastra di vetro dovrebbe comportarsi. E invece no. Gli specchi dovrebbero essere come le parole. Loro sì, che ti obbediscono. Se dico ‘cane’, significa cane. Automobile, automobile. Non si scappa. Certo, le parole hanno più significati, ma sei tu a deciderli. Mica loro.
Ecco, da oggi ho deciso. Non mi faccio più fregare. Gli specchi, li guardo solo di profilo. Così, giusto per capire a fondo l’essenza delle cose. Perché solo guardandoli di profilo, si capisce che uno specchio non è altro che una lastra di vetro. Da tutte le altre angolazioni, uno specchio non fa capire mai a nessuno che è solo uno specchio. Ti distrae, l’infame, mettendoti davanti tutte le altre immagini! Tu pensi a ciò che vedi e ciò che stai guardando, lo specchio appunto, non lo vedi più. Che… che… che stronzo!
Va be’, non pensiamoci. Né a lei, né allo specchio. Anche perché a lei, già non ci pensavo più. Lo specchio mi ha preso in toto. Che strano. Siamo così tanto fragili nei sentimenti, che può bastare l’idea di un riflesso, che non vediamo altro che tutto il resto e non siamo più concentrati su noi stessi.
Uno dovrebbe essere in grado di sentire a pieno il proprio dolore. Uno dovrebbe stare lì a capirlo, un dolore. Altro che mettersi a fare le bolle di sapone con il cervello.
Va be’, su. Andiamo a casa. Ormai la serata è andata come è andata. Devo assolutamente riposarmi. Domani mattina le cose saranno sicuramente migliori.
La notte porta consiglio e il primo caffé della giornata fa sempre girare meglio le ruote del cervello. Sì, come olio, altro che caffé.
No, no. Non distraiamoci un’altra volta.
Io, adesso, prendo il tram e me ne vado a casa. Ecco, sono quasi in Piazza XXIV Maggio. Speriamo solo che non sia appena passato.
Le luci delle macchine che passano di tanto in tanto mi illuminano di traverso i pantaloni e le gambe. Nessuno vede la mia faccia. Nessuno si chiede nemmeno come sia, la mia faccia.
Nemmeno io lo farei.
Ecco. C’è già un tizio sotto la pensilina. E questo significa che il tram non è passato. O per lo meno, che non è ancora passato.
Avrei voglia di sedermi, e di lasciarmi andare. Mi basterebbe anche solo mettermi le dita nel naso. Una cosa così maleducata che mi farebbe sentire a mio agio.
Mi avvicino, mi metto sotto la pensilina. Anche perché, me ne sto accorgendo ora, il freddo mi inizia a entrare nelle ossa. Non c’è vento, non piove. Certo, l’asfalto è ancora un po’ bagnaticcio, magari scivolo, batto la testa e lei corre da me. E grida: “Amore, amore, amore! Ti amo! Ti amo! Ho sbagliato tutto e tu stai male per colpa mia!”
E io: “Sì! Sì! È tutta colpa tua! Roditi!”, ma poi, mentre lei piange, le cingerei le spalle con il braccio. E le direi: “Ma no, amore, stai tranquilla. Non importa, contiamo solo noi due…”
Sì, certo. Ma se poi cadendo mi rompo il collo? E se poi resto invalido e lei non viene nemmeno?
No, no. È un rischio troppo alto da correre. Senza sapere nemmeno se lei verrà o no.
Mah. Mi siedo, va. Sotto la pensilina. C’è anche sto tizio, non so se fidarmi.
Magari è un serial killer. Magari è un pazzo rapinatore. Magari è uno normale. Con la ragazza che lo aspetta a casa ed è tanto innamorata.
E anche la mia, certo, è innamorata. Di un altro, sicuro. Ma almeno è innamorata.
I tram non arrivano mai quando ne hai bisogno. Sembra lo facciano a posta. Se non li cerchi, se hai la macchina, sono miliardi. Tanti da farti pentire di esser uscito con un mezzo tuo. Ma se invece hai non dico urgenza, ma voglia di tornare semplicemente a casa, niente. Come un dispetto, come la Polizia. Quando li vuoi, si fanno sempre desiderare. Come le donne, appunto.

Però che bella Milano di notte. Le luci che sbattono sulle saracinesche abbassate, le macchine che inquadrano le strade così, non per vederle ma tanto per fare.
Qualcuno che corre in mano con una bottiglia mezzo vuota, e chissà dove va.
E pensare che, proprio qui, anni fa ci deve pur essere stato qualcosa. Leonardo, vorrei proprio sapere lui come ha fatto a farsi venire in mente l’idea dei Navigli. E chissà quanto sarebbe umiliato dal sapere che adesso sono ridotti a una discarica, praticamente.
No, no. Non penserebbe minimamente alla sua opera. Uno come lui sarebbe lì a sbavare dietro alle automobili. Ce lo vedo. Gli occhi spanati, la bava che cola sulla barba lunga e bianca.
Nel mio immaginario, Leonardo è un po’ come Dio. Come Mosè. Chissà perché. Chissà che influsso ha avuto il cinema nel mio cervello.
“Scusa, hai una sigaretta?”
Quasi mi spavento. Ero tutto preso dai miei pensieri, che per un momento mi sono isolato dal mondo.
“No, mi spiace. Non fumo”
“Va be’, ce le ho io”
Lo guardo male. Prima mi fa una domanda e poi ce le ha? È come se uno mi chiedesse mostrandomi l’orologio che ore siano! La gente è strana.
Si accorge della mia faccia perplessa. Non devo avere uno sguardo molto intelligente.
“No, è che mi sembra di stare qui da una vita. Sono appena tornato a Milano e volevo fare quattro chiacchiere con qualcuno.”
Meno male, era solo un pretesto per attaccare bottone. Non è un pazzo. Mi sento meglio.
“Be’, sì. Alla fine, è meglio farsi quattro chiacchiere. Il tempo passa meglio”, gli rispondo.
E poi, via. Uno inizia a parlare del tempo, della città, e poi diventa tutto facile.
“Ma scusa, sei stato via per lavoro?” gli chiedo.
“Sì, in un certo senso sì.”
“E che lavoro fai?”
“Non saprei come definirlo. È una cosa un po’ complicata. E tu? Lavori?”
“Sì” dico, “faccio il correttore di bozze in una piccola casa editrice, qui a Milano.”
“E ti piace?”
“Be’, sai. Alla fine, un lavoro vale un altro, quando devi pagare l’affitto. Poteva andarmi peggio”
“Sì, è vero. Può andare sempre peggio. E quando meno te lo aspetti”
Ecco, questo è vero. Uno si distrae un attimo, e le cose cadono in un baratro tanto profondo che non lo si riesce nemmeno a immaginare.
E poi i minuti passano, e del tram nemmeno l’ombra. Mi sono alzato, parliamo ormai e lui fuma come un turco. Per carità, non che i turchi fumino in maniera particolare. Almeno non credo. Si dice. Lui, comunque, si fa una sigaretta via l’altra.
Ad un certo punto, lancia via il mozzicone e mi dice di andarcene a piedi.
“Be’, io devo andare verso Cadorna”, gli dico.
“Anche io. Allora, sai cosa facciamo? Facciamoci una passeggiata”
Ci avviamo e continuiamo a parlare del più e del meno. Lui deve essere stato via da Milano un po’ di anni, da come ne parla. Non riesco a capire se, nelle sue parole, c’è più nostalgia o semplicemente distacco. Ma non importa. Tutto sommato, è andata meglio di quanto potessi sperare. Meglio così che stare da solo, fermo come uno scemo, seduto sotto una pensilina ad aspettare un tram. Che non arriva, per giunta.
Passiamo davanti alle colonne di San Lorenzo. I ragazzi bevono, qualcuno ha anche la chitarra e canta. Guccini, De Gregori. Passano gli anni, ma le canzoni restano. Pazzesco. Non c’è più stata una canzone da falò dagli anni 60?
Giriamo a destra in via Torino. Più o meno verso metà, vediamo i tram bloccati. Ecco perché non passavano. Ci sono due macchine, un’Audi e un Mercedes, che hanno fatto un mezzo frontale. Bloccando la strada in entrambi i sensi. Ottimo.
I due conducenti sono già scesi. Uno di fronte all’altro.
“Sei una testa di cazzo!”
“No, sei tu che sei un figlio di troia! Come cazzo guidi!”
“Non ti permettere! Io ti denuncio!”
“E certo! Mi denunci perché sei un figlio di troia!”
“Guarda che non immagini nemmeno chi sono io!”
Come nei film di Totò.
“Sì che lo so! Sei un figlio…”
Be’, questa era servita su un piatto d’argento.
Non voglio nemmeno sapere per quanto tempo ne avranno.
“Certo che deve essere una gran bella rottura di coglioni”, mi dice il mio nuovo amico guardando la scena divertito, “restare bloccati con il tram a quest’ora!”
“Poveri Cristi. Magari stavano anche per finire il turno”
“Senti. Lì c’è un bar. Beviamoci una cosa. Per dimenticare.”
“Ma veramente…”
“Dai, non fare il guastafeste. Sono appena tornato a Milano. Fammi compagnia!”
E va bene. Andiamo. Mi prende per un braccio e mi trascina dentro il bar qualsiasi.
La folla di ragazzi che beve e che grida non passa certo inosservata. Ma riusciamo anche a trovare un tavolo.
“Ragazza!”, grida, “Ci porti una bottiglia di vino? Quali avete? Sì, sì. Va benissimo quello lì”
“Non sarà troppo, una bottiglia?” gli chiedo.
“Ma figurati. Offro io, e quindi ordino ciò che voglio, no?”
Ride, rido anche io. Il suo discorso non fa una piega.
“Sono appena tornato, festeggiamo”
È una cosa che dice troppo spesso. Mi sta mettendo addosso una curiosità immonda.
Arriva una ragazza, con la bottiglia già aperta e due bicchieri in mano. Lascia tutto sul tavolo alla rinfusa. Ha uno scontrino in mano e aspetta. Non dice nemmeno quanto è.
Il mio amico paga.
“Il resto tienilo. Ché tanto, qui dentro, per quello che lavori ti pagheranno da far schifo”
La ragazza sorride. Sembra esser stata colta nel punto giusto.
Se ne va sculettando, i fianchi avvolti da un grembiulino minuscolo con disegnato lo stemma di una birra.
Prendo la bottiglia, riempio i due bicchieri.
“Al mio ritorno”, dice lui. E picchiamo il vetro sollevandolo verso l’alto.
“Ma senti. È un po’ di volte che dici che sei tornato. Ma da dove?”
“Sarebbe troppo lungo, da spiegare”
“Be’, tanto di tempo ce n’è, no? O dobbiamo fare altro? Non mi pare”
Mi sorride. Ha proprio voglia di parlare. Beve un lungo sorso, io mi bagno appena le labbra.
Si stende sullo schienale della sedia. Allunga le gambe. Inspira, espira. Si rifà su e si mette coi gomiti appoggiati al tavolo, di scatto.
“No, hai ragione. Non pare nemmeno a me”, dice.
Mentre io penso a quanto sia più facile confidarsi con le persone che non si conoscono quasi. Che non si conoscono affatto, meglio.
E mentre lui inizia a parlare. Va bene, sentiamo.

sabato 3 novembre 2007

dichiarazione d'intenti

Luce.

Dunque.
Questo voleva essere un libro stampato e pubblicato.
Ma è più facile mangiarsi il gomito, piuttosto.
E siccome nessuna storia esiste se non la si conosce, eccola.

Questa è la storia che voglio raccontare.
Non sono io. Nè i miei momenti nè i miei pensieri.

Un capitolo, ogni giovedì sera, lo metto on line.

C'è un tizio su un'Alfetta gialla del '75 in una Milano che si guarda le scarpe.
E, di là, un intero esercito di piccioni.
Con le piume e tutto il resto.
Addestrati per uccidere e per riazzerare.
Schierati da trent'anni.

Adesso, a un tizio su un'Alfetta gialla del '75, tocca dover reagire.
O fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.

Buona lettura.
Buio.