giovedì 17 gennaio 2008

Sei

Nel capitolo precedente: parla a spizzichi e bocconi. Come fosse solo. E poi fuma e sorseggia.
Un bel casino stargli dietro, a sto qui. Nel senso. Prima mi inviti a bere qualcosa, e va bene.
Poi decidi di raccontarmi qualcosa, e va bene.
E io decido pure di ascoltarti, e questo va benissimo.
Ma quando ti ritrovi a parlare da solo, be', questo non va tanto bene.
Anche perché io mica posso perdere tutta la notte a sentire un pazzo sclerotico che ricerca chissà che cosa nei suoi ricordi!
O no?


Lo studio del notaio era abbastanza accogliente. Poltrone di finta pelle, copie di quadri famosi alle pareti, finte bottiglie di alcolici. Tè nelle bottiglie di whisky.
Mi sentivo in imbarazzo per lui. Certo, faceva scena, ma dedussi che i clienti dello studio fossero degli imbecilli. O per lo meno che non trattasse con clienti che i bar li frequentavano spesso.
Ci accomodammo sulle sedie e il notaio cominciò a parlare. Con accento meridionale.
Era uno di quelli allevati dalla DC e portati alla ricchezza dal nord. E che, sentendosi arrivati, non avrebbero esitato un attimo a chiamare i propri compaesani terroni, se li avesse incontrati per strada.
“Certamente sarete a conoscenza della morte del signor Anselmo Mezzaspada”
No, non lo eravamo. E probabilmente le nostre facce lo esprimevano. Tanto più che Emily non lo conosceva nemmeno. Piegò le labbra verso il basso, giudicandoci dei parenti degeneri. Non sapere nemmeno che un parente è morto, che sfregio.
“Comunque. Non è questo il punto. Il signor Mezzaspada è morto circa un mesetto fa, ci abbiamo messo un po’ a trovarla. Tanto è vero che poi siamo finiti al bar. Oggi verrà data la lettura del testamento. Lei, e immagino a questo punto la sua compagna, siete gli unici cui il Mezzaspada ha lasciato i suoi averi”.
“Ok. Mi dispiace per il signor Anselmo. Primo, lei non è la mia compagna”, indicando Emily, “Due, la mia famiglia è un altro discorso. E poi non vedo perché abbia lasciato tutto a me. Non aveva parenti o amici?”
Mi stavo arrabbiando. Mi sentivo in una sitcom americana. La poltrona di finta pelle nera iniziava a darmi fastidio. La tela dei jeans non scivolava e io non riuscivo a mettermi a mio agio. O forse erano quelle due enormi facce di legno africano dietro la scrivania che mi mettevano in soggezione. Sembrava uno studio arredato in maniera assolutamente casuale. E dire che, uno che fa il notaio, i soldi per prendersi un architetto dovrebbe averceli. Che indecenza.
Fatto sta che a nessuno importava niente di ciò che c’era dietro al testamento, parentele o amicizie o altre sciocchezze. Anche se fossi stato uno sconosciuto, nel testamento c’era il mio nome e io mi dovevo prendere quello che c’era nella casa del signor Anselmo. Punto e basta, senza perdere altro tempo a discutere. Ed Emily già pensava che saremmo diventati ricchi, di una ricchezza accumulata per anni e mai spesa.
Mi furono consegnate in mano le chiavi di un appartamento in centro, zona Porta Romana o giù di lì. Sicuramente in una di quelle via lastricate di pavè che poco fanno bene alle sospensioni di auto vecchia di trenta anni.


Il signor Anselmo, poverino, non aveva quasi niente. L’unica sua ricchezza era un terzo di un magazzino comprato anni prima con due amici. Dei quali era rimasto in vita soltanto un certo Enrico De Nocciola. Tramite il notaio, mi era giunta la proposta di vendergli la mia parte di immobile, i documenti erano già pronti e i soldi in contanti stesi accanto a una penna.
Con cui firmai. Di un ex deposito nemmeno intero, in zona Navigli, non sapevo che farmene e, piuttosto che pagare tasse su una cosa di cui non mi importava affatto, preferivo far felice uno sconosciuto. Anche perché immaginavo che volesse farci qualcosa, con quel magazzino. Mi sembrava un atto di carità, e intascai immediatamente quei soldi.
In casa del signor Anselmo, un piccolo due locali in una vecchia casa a ringhiera, non c’era poi molto di interessante. Solo la porta tanto ricoperta da escrementi di piccioni, da credere che fossero chili. Rappresentava forse una minaccia, oppure la pigrizia di chi non ha molta voglia di pulire.
Tutto era in ordine, all’interno, curato con fare certosino. Solo la polvere di un mesetto buono adagiata in giro, come zucchero a velo sulle torte. Unica nota ricca, il macinino di legno scuro, forse ebano, e argento. Senza però il forte odore di caffé in chicchi che impregnava le pareti fino al midollo, come mi sarei aspettato. Come le case dei fumatori accaniti, dopo quaranta anni di 30 sigarette al giorno fumate accanto al camino.
Nella mia testa però, l’aroma di caffé era legato al signor Anselmo. Quando arrivavo al bar, ogni mattina, mi tranquillizzava avere le narici invase dal profumo dei grani appena macinati.
Ma lì non c’era, e forse non era nemmeno poi così importante. Dovevamo sbaraccare, non giocare a “Trova le differenze” della Settimana Enigmistica.
E poi ancora. Riviste di automobili accumulate nello sgabuzzino, forse per cambiare quella Cinquecento che non era stata cambiata mai. Libri lasciati accanto alla poltrona con abat-jour incorporato che parlavano di libertà sociali e discussioni, forse antico retaggio degli anni 60. Per il resto, poche sedie, un tavolo e un divano. Un televisore, mi stupii, troneggiava sul frigorifero, in una posizione tale da potere essere visto più o meno da ogni angolo della casa. Vedergli accanto una radio tuttavia, di quelle vecchie anche lei, mi tranquillizzò e non poco.
Nella cantina ampia e a pian terreno, un po’ troppo buia per i miei gusti, più un box che una cantina, in cui c’era anche la macchinina bianca con le chiavi nel cruscotto, solo un baule con dentro abiti dismessi.
Li mettemmo in un cassonetto per i poveri, così che potessero servire ancora a qualche bisognoso.
“E l’azione buona della giornata è andata”, dissi ridendo.
Emily mi colpì con un buffetto, ma rideva anche lei.
Nonostante l’affitto fosse già stato pagato per i prossimi sei mesi, decidemmo di comune accordo di liberarci in fretta di questa gatta nera. Emily si era offerta di darmi una mano, cosa che, non si nega, mi fece molto piacere. Non ce l’avrei fatta da solo. Non tanto per il lavoro, quanto per la fatica. Insomma, se si dice “mal comune, mezzo gaudio”, ci sarà pure un motivo. Cominciammo una domenica di metà autunno, vestiti a cipolla, in maniera tale da poter gestire al meglio le temperature. Emily aveva addirittura una mascherina per la polvere, io due buoni pacchetti di sigarette. Non mi importava se lei fumasse o meno, ma qualora non avesse portato con sé le sue, non volevo trovarmi a secco a metà giornata.
Iniziammo. L’idea era quella di accumulare tutto alla sinistra dell’ingresso e poi ci avremmo pensato. Anche vendendo tutto in un mercatino dell’usato, ci avremmo ricavato ben poco.

Chi abita nelle corti sa tutto di tutti. I ballatoi costituiscono degli ottimi canali di comunicazione, tanto che stupisce come mai, questa particolare struttura, non sia stata adottata dagli uffici pubblici. Le notizie corrono come scariche elettriche lungo le ringhiere e le persone, istinto inconscio, si fiondano fuori dalla propria casa e tutti davanti all’ingresso dell’appartamento chiamato in causa.
Era toccato anche a noi, mentre facevamo la selezione degli oggetti che potevano servire o che dovevano essere inevitabilmente buttati. Avevamo riordinato tutto. Un ordine maniacale, proprio degli adolescenti che ammucchiano le cose negli angoli quando i genitori ordinano di mettere a posto la loro stanza. Mettevamo tutto sotto la finestra, appoggiato sul muro il materasso, la rete del letto sopra una poltrona e pile e pile di giornali, libri e fogli. Speravo che qualcuno avesse avuto bisogno degli elettrodomestici. Erano in buone condizioni e, buttarli, sarebbe stato proprio un peccato.
Verso le cinque, ormai il sole si era trasformato nel ricordo di un’altra domenica scivolata lungo i campi di calcio, finalmente giunse il momento di fermarsi. Ero stremato, le dita intorpidite e un fortissimo desiderio di Campari. Non c’era un motivo plausibile, ma ne avevo proprio voglia.
Con la fiamma dell’accendino poco sotto il naso, il sapore del fumo che mi inondava la saliva, lo dissi a Emily.
“E da quando bevi Campari? Al bar, al massimo, ti fai una sambuca…” per prendermi in giro.
Feci finta di niente, nonostante mi guardasse aspettando una risposta, gli avambracci sulla ringhiera e la mano destra a penzoloni, come se la porgesse a un re francese.
Cercai di recuperare la situazione.
“Ho proprio una voglia incredibile di un Bitter col bianco. In Piemonte, mi pare, la chiamano Bicicletta… due terzi di Bitter e un terzo di bianco. Che nome particolare. Chissà perché, poi.” Inspirai, espirai.
Avevo ancora il fumo davanti agli occhi che la vecchia dell’appartamento accanto si affacciò alla porta.
“Entrate”, disse in dialetto, “i bicchieri sono già pronti”.
Pazzesco, pensai. “Peggio del KGB”. Emily non accolse bene la battuta, ma il desiderio era così forte che nemmeno mi curai dell’effetto delle mie parole.
La vecchia invece, doveva soffrire di solitudine cronica, aveva voglia di parlare, si vedeva, e sembrava fosse stata anche molto affezionata al signor Anselmo.
Per forza, pensai. Che cosa può desiderare una donna logorroica più di un uomo taciturno?
“Lei è il figlio?” mi chiese dopo un preambolo inutile sulla sua vita in quella casa.
“No. Siamo solo degli operai e dobbiamo portare via tutto. Ma, scusi, lei sa come è morto?”, tagliai corto. Il notaio aveva avuto una fretta matta di liquidarci. E non aveva risposta a nessuna domanda che riguardasse il signor Anselmo da vicino, ma aveva parlato solo degli averi, prima suoi e ora miei.
E la signora cominciò, come fosse una filastrocca nota a tutti.
Ci disse che una mattina aveva un appuntamento, forse per vendere la Cinquecento, ma non si era fatto trovare. L’acquirente era lì sotto, suonava il citofono e niente. Nessuno l’aveva visto uscire, il signor Anselmo, e l’intero condominio si era messo in allarme.
“Sono cose che a una certa età succedono”.
Furono chiamati i pompieri per aprire la porta.
La vecchia aveva in mano un fazzoletto di stoffa, di quelli grandi, con cui continuava ad asciugarsi gli angoli della bocca. Evidentemente una dentiera un po’ difettosa, o la pelle che cominciava a cedere un po’ troppo.
“Ma l’era tardi” continuava incurante della saliva, “e non sembrava nemmeno lui. La bocca aperta, le gambe rigide e delle buste in mano. Una era il testamento e lasciava tutto ad un ragazzo che l’aveva sostituito al bar. Parlava spesso di lui, mi sarebbe piaciuto conoscerlo.”
Tacque un po’ e cominciò a piangere. Chissà se per parte o per partecipazione.
“L’era un brav’uomo. Pensate. Aveva una nipote che non ho mai visto, perché veniva tardi la sera. Ma il signor Anselmo le lasciava la casa, lui restava a controllare però, mica sciocco. Lei aveva un’associazione culturale, mi aveva detto un giorno, e le prestava la casa per le riunioni. I giovani non hanno più gli spazi, mi diceva sempre” e giù a singhiozzare. Chissà se avrebbe avuto le stesse lacrime, sapendo che la nipote, invece, era la sua donna.
Ma anche se sembrava per finta, non importava. Mi faceva piacere in realtà, nonostante tutto. Le lacrime che non avevo versato io erano state ben sostituite.
La Polizia aveva parlato di infarto, mentre stava cercando di uscire per vendere la macchina. Forse il dolore per doversi separare da un oggetto che l’aveva accompagnato per tutta la vita. Era un vecchio, in fondo, quindi la pratica era stata immediata. Tac, fatto. Come una puntura. O una scoreggia.
La vecchia non ci credeva. E forse non ci credeva nemmeno Emily. Ma la Polizia aveva dato la sua versione, ed io non avevo nessuna voglia di intromettermi. Credevo nella giustizia, in fondo era un obbligo. Perché se uno non crede nella giustizia, che cosa fa. Nel senso. Se uno che comanda, e mi dice che le sue leggi sono fatte a caso, nessuno ha più il diritto di giudicarmi e di comandare. L’unica legge che riconosco, a quel punto, è la mia. Ma la mia legge, lo sapevo bene, sarebbe stata fatta e gestita con la stessa parsimonia di un pesce rosso che mangia.
E quindi, dovevo avere una fiducia cieca. Non potevo vacillare proprio ora.
Tornammo alla nostra casa che oramai sapeva di polvere e basta. Prima forse nascondeva dei segreti, ma ora era fatta solo di angoli e cumuli di gatti di polvere. Non importava più, ormai.

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