venerdì 14 marzo 2008

Tredici

Nel capitolo precedente: oh, finalmente pare le cose cambino un attimo. Un attimino.
Poi vediamo.
Ma il fatto è che questo qui si muove sulla scia dell'emozione.
Un minimo di vento caldo e lui è già in mutande.
Sembra di essere quasi in quei film degli anni 80 in cui non succede niente ma poi è successo un casino di roba, tanta che tu non te ne sei nemmeno accorto e poi è tardissimo e forse non è successo, credi, nulla perché ti sei addormentato sul più bello, e poi gli amici invece ti dicono 'Oh, ma che figata! Il film di ieri, non l'hai visto?' e tu, sì sì, l'ho visto, ma a me non sembrava granché e ti senti un po' scemo perché mica ti sarai addormentato per davvero con un film così stramaledettamente bello...


Al bar non lasciai trasparire più niente, anzi. Mi dedicavo ai clienti e alle signorine con un’attenzione quasi fastidiosa. A volte, con cenni blandi della mano, addirittura mi invitavano ad allontanarmi. I tavolini di ferro erano costantemente lindi e puliti, come se temessi un’improvvisa visita di un ispettore d’igiene. Lì, dove non mettevano nemmeno piede i vigili urbani. In quanto tali, ovvio, non in quanto uomini, visto che, in quanto uomini, ci mettevano qualcosa di più di un piede. L’unico elemento che mi fregava, invece, era l’ascolto dei GR. Mi preoccupava. Pensavo che da un momento all’altro sarebbe uscito qualcosa di particolare, che mi riguardava più o meno direttamente. Tenevo la sigaretta fra i denti, per i minuti di cronaca. Solo allo sport, lasciavo che l’indice e il medio della destra facessero riposare i muscoli della mandibola.
Spesso, sollevando la mano dal bancone, lasciavo l’impronta del palmo. Come nelle caverne primitive, quasi.
Però tutto mi sembrava filare liscio.
Un giorno, Emily mi chiese un passaggio per tornare a casa. Smontavamo insieme, coincidenza o volontà, e io non vidi alcun motivo per negarglielo. Dalla sera al cimitero, non ci eravamo quasi rivolti parola a riguardo.
Avevo bisogno di rompere gli indugi. Mentre si aggiustava con le mani la gonna sul sedile, le parlai. Dei sospetti e dei poliziotti, di quel poco che sapevo e di quel tanto che immaginavo.
“Era l’ora che ti decidessi. Anche io ho delle cose da dirti. La tomba del Turri. C’era un tizio che ti aspettava. E invece ha trovato me. A Musocco, piangevo per la paura”
“E cosa ti ha detto.”
“Certo, non mi ha fatto niente!”, si mise a gridare.
Non l’avevo mai sentita farlo. Nemmeno a fingere gli orgasmi. Doveva aver avuto paura per davvero. E poi non aveva niente, di cosa dovevo preoccuparmi. E dal momento che era tornata a lavorare, nemmeno lo stupro era cosa da avvalorarsi. Mi stupii però del fastidio che poteva crearmi la sua voce in quella tonalità acuta. Bisognava smettesse, per il mio bene.
“Sì che mi preoccupo, scusa”, cercai di recuperare, “ma dimmi. Allora?”
Insomma. Questo tizio che aveva incontrato lei aveva mandato l’altro tizio a tenermi compagnia e a riferirmi quello che era stato riferito a me. Voleva tenermi occupato, ovvio.
“Per questo poi a cena non se n’è cavato un ragno da un buco. Continua”, intervenni.
Emily concluse. E la cosa mi puzzava. Non sapevo perché, ma il mio sesto senso mi diceva che sarei tornato la sera a casa troppo stanco per guardare un film. Però, la cosa stava cominciando a divertirmi.
In primo luogo, il tizio della tomba le aveva dato il nome di un giornale e consigliato di leggere l’articolo del giorno in cui era morto il Turri, la pagina della cronaca.
“E basta?” domandai quasi stizzito.
“Basta”, mi rispose Emily. “poi dobbiamo aspettare”
“Non mi torna un particolare. Che cosa c’era scritto nella lettera del signor Anselmo.”
“Niente. Era una sorta di lasciapassare perché il tizio al cimitero ci riconoscesse.”
“E perché ci hai messo tutto quel tempo per uscire. In fondo non avete parlato molto”, le chiesi temendo di uno straordinario piuttosto macabro.
Si incazzò. “Coglione. Sai perché vivo così, e sai anche che non mi piace. Ci ho messo tanto perché ha voluto assicurarsi su chi fossi. Aspettava un uomo e mi presento io. Ti pare?”
Quindi prima tappa, la Biblioteca Sormani, l’unica che possedeva microfilm e archivi di quasi tutti i giornali. I malumori di Emily erano secondari. Il fatto che guardasse fuori dal finestrino, con il naso attaccato al vetro, non mi toccava minimamente. Se non per il fatto che, al vetro, l’unto del naso sarebbe rimasto. Ma forse non era il caso di farglielo notare adesso.

“Che morte da sfigato” fu il mio primo commento. I muscoli della faccia erano rimasti tesi per soffocare il riso. Non riuscivo a trattenermi. Ero in una biblioteca, d’altronde.
Riavvolsi il microfilm su cui era stato trasferito il giornale del mese in cui era morto il Turri, e lo riconsegnai.
Con le labbra ancora tirate, lungo le scale respirai i libri e le voci degli studenti ai quali una volta ero appartenuto pure io. Non li invidiavo affatto, con i loro giorni persi di ozio tra una vacanza ed un esame. Anzi. Se avessi potuto, avrei detto a tutti loro, uno per uno, che quella condizione era la stessa di chi, seduto sulla tazza, non ha più niente da dare ma vuole finire il capitolo del libro che sta leggendo.
Sorridevo anche a quest’idea, ma uscii. Parcheggiata tra le strisce gialle dei portatori d’handicap stava l’Alfa; appoggiata con l’anca al cofano, invece, Emily fumava.
Era stata una dimostrazione di forza. Aveva urlato, biascicato e persino sbattuto la portiera per non farmi parcheggiare in quello spazio. Minacciandomi di una multa salatissima e della rimozione.
“Benissimo”, le avevo risposto. “Allora tu resti giù a curarmi la macchina”.
Era rimasta talmente di sasso che non si era mossa. E io avevo colto l’attimo per fuggire via veloce dalla situazione.
Appena mi vide, inspirò ed espirò velocemente. Guardò con lentezza il braciere che aveva in mano e fece per calarlo, ancora acceso, sulla scocca gialla.
Questa volta fui io a rimanere pietrificato. Sembrava che lo stesse facendo a me. Addirittura, mi parve di essere come in quelle performance di body art, in cui l’artista o il deficiente, a scelta, si conficca una graffetta nell’uretra e si accappona la pelle dello spettatore per il dolore che non prova.
Le unghie di Emily si fermarono a mezzo centimetro dalla vernice. Sentivo io il calore che c’era in quella piuma di spazio.
“Non provarci mai più” sibilò.
“Certo, mia padrona” fu quello che telepaticamente le trasmisi. Non ero in grado di parlare. Sentivo un peso alla bocca dello stomaco, appena dietro allo sterno. Mi mancava il fiato, la bocca aperta a fessura.
Respirai a fondo, come fosse la prima volta. E permisi alle scarico delle auto e dei riscaldamenti di placcarmi ancora un po’ i polmoni di argento e di catrame.

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