giovedì 21 febbraio 2008

Undici

Nel capitolo precedente: va', guardalo. Lancia via la sigaretta come avesse detto chissà che verità.
E invece si è messo solo a fare quello che gli aveva detto di fare il vecchio. Prendere un minimo la situazione in mano, tenerla un minimo in pugno.
Sì, tanto in pugno che appena ha deciso di andare da solo dal Turri, con lui ci va anche Emily.
Bel pugno di cioccolato, che ha questo qui.
Butto via anche io il mozzicone, va.
Rientriamo.
Ché qui fuori fa veramente freddo e mica posso star qui a pettinare le bambole.


Giravano i numeri rossi sul contachilometri e osservavo le strade in ogni loro angolazione, giusto per cambiare, ma mi stavo cominciando a scocciare. Sempre con la stessa dinamica, le stesse posizioni, le mani attorno al volante. Emily guardava fuori con gli occhi spenti del piccione. Stringeva tra le mani la busta che dovevamo consegnare, ma solo Dio sa quanta voglia avrebbe avuto di aprirla. Lei, io no. Io sono uno che nelle cose ha sempre voluto starne fuori e non sapere niente. A meno che non fosse a livello di pettegolezzo, sia chiaro. Perché lì, allora, fa ridere. Mica come in queste storie, la fine delle quali non si vede mai.
Trovato il numero civico, sistemai la macchina al solito posto. Da quando ci facevo caso, avevo scoperto che gli handicappati sono molto ben distribuiti in città.
Il portiere era una persona di piccola statura. In divisa, manifestava quanto il palazzo volesse essere signorile e distinto, con marmi e vetri, ottoni e tappeti che, nonostante la pioggia, mascheravano in malo modo il fatto che fosse una delle tante cooperative fasulle. Cooperative sociali all’inizio, ma poi tutti pronti a guadagnarci qualche soldino.
Non avevo la più pallida idea nemmeno di come pormi. Non ero mai stato bravo a inventare balle nemmeno quando dovevo coprirmi con mia madre. Figurarsi adesso che la cosa era una semplice formalità.
Spacciandoci per dei figli di un lontano cugino, avevamo chiesto informazioni sul Turri. Geneticamente, si sa, i portinai sono inclini alla chiacchiera. Soprattutto quelli dei palazzi bene, che sono saturi di informazioni su una certa fetta di società e non sanno nemmeno loro come fanno a trattenersi.
Si pizzicava i baffi, nell’angolo di destra, contento di trovarsi ad essere il protagonista di un dramma non cercato. Parlava con un accento pugliese, con quelle inflessioni dialettofone che per molti restano solo suoni molto aperti, ma senza un significato.
Però capimmo tutto. Dai quattro “che c’amma fa’?” fino ai più difficili giri di parole per dirci che il nostro Turri Alessandro era morto in un incidente d’auto circa quindici anni prima. Un colpo di sonno, un malessere, non ricordava. Parlava come un verbale redatto dalla stradale, come se anziché saperlo per passaparola, fosse venuto a conoscenza dei dettagli direttamente dai documenti.
E allora, rifacemmo tutta la circonvallazione, con i suoi saliscendi. Fino alla svolta in viale Certosa, con i suoi alberi e i suoi semafori, fino a Musocco.
Emily prese la lettera dal cruscotto, batteva i piedi sul pavimento dell’auto nervosamente. Ero consapevole del non perfetto funzionamento dell’impianto di riscaldamento, e i piedi le si stavano congelando. La capivo. Però era molto più facile comprendere le differenze tecnologiche che crescono in trent’anni, da parte sua. Poteva anche smettere. Non tanto per il rumore, quanto perché temevo danni irreversibili per il pianale stesso.
Tuttavia, non mi sembrava il caso di farglielo notare. Così come non mi sembrava nemmeno il caso di andare in un cimitero, soprattutto in inverno, col cielo che si perde nell’asfalto, così come i tramonti si affogano nel mare e non se ne distingue il limitare.
Ma se al mare, un effetto ottico del genere può essere costellato di mille, piacevoli e romantici aggettivi, in città diventa quasi macabro. Prescindendo poi dalla folle idea di cercare la tomba del Turri e leggere alla lapide la lettera del vecchio amico morto. Se lei voleva farlo, per semplice influenza cinematografica o per chissà quale motivo morale, io non l’avrei seguita.
Stavo in macchina, il motore spento e gli aghi del tachimetro in posizione di riposo, entrambi, e fumavo lasciando appena aperto il deflettore. Guardavo il cancello d’ingresso e le strade che si riempivano sempre più di luci e di lamiere. Stavano arrivando di corsa le sei, gli uffici avevano già chiuso, e gli ultimi ritardatari si stavano affrettando a finire ciò che era rimasto. Come fosse una merenda obbligatoria per tornare a giocare a pallone con gli amici.
Emily ci stava mettendo un sacco di tempo. Ero stato seduto troppo tempo. Mi stavano venendo le piaghe da decubito. Forse sarebbe stato meglio uscire, giusto per stendere le gambe.
Appoggiato alla lamiera, immediatamente fui affiancato da un poveraccio che chiedeva l’elemosina. Spostando verso di me le dita ormai blu, sibilò appena la richiesta di una sigaretta. Come unica fonte di riscaldamento non c’è male, pensai.
Accese, appoggiò a sua volta la schiena sull’Alfa.
“Cercate anche voi il Turri?” domandò dopo una prima boccata.
“E lei come fa a saperlo?”
Strinse il filtro forte tra le labbra, fino a schiacciarlo. Era un gesto che ricollegavo allo stadio, alle tifoserie delle squadre che stanno per perdere una coppa.
“Ho sentito la sua donna chiederlo in guardiola”
“E allora? Si mette ad origliare? E poi non è la mia donna”
“Cambia poco. Sono anni che sto qui al Maggiore, e mi chiedo come mai solo adesso ci sia gente che chiede del Turri. In tanti anni, nemmeno un fiore…”
“Magari ci siamo ricordati di lui solo adesso”. Mi stavo innervosendo, ero acido.
“Voi due, forse. Ma i tipi che sono venuti un mesetto fa erano poliziotti”, mi rispose come se nulla fosse. Aveva finito la sigaretta, stava lanciando via il filtro, con un gesto di chi lo sa far volare lontano. Gli afferrai il braccio, e il mozzicone mi cadde quasi sui pantaloni. Per poco non avrei rischiato di prendere fuoco.
“Adesso mi dice che cosa sa. Chi era il Turri, come è morto eccetera.”
“Facile, così. Io non mangio, figuriamoci se parlo.”
“Ok, adesso ce ne andiamo a cena e vediamo se riesce a trovare qualche briciolo di forza per parlare.”
Lo feci sedere davanti, accanto a me. Emily era tornata con la busta ancora in mano, il volto con due righe che scendevano dagli occhi fino alla mandibola. Aveva pianto, ma non volevo sapere il perché. Se me lo avesse detto, bene. Altrimenti, ciccia. Robe da donne che a stento avrei capito.
Adesso c’erano ben altre cose di cui occuparsi. Avevo trovato una pista e non me la sarei lasciata scappare per nessun motivo al mondo.
A pochi passi dall’auto, notò che al suo posto c’era questo tizio. Il suo sguardo fu abbastanza loquace. Mi restituì la lettera, che riposi nuovamente nel porta documenti dell’Alfa.
“Stai dietro e controlla questo qui mentre guido. Andiamo a cena, poi ti spiego”, le dissi da finestrino aperto, allungando fuori la testa dal guscio di tartaruga di lamiera.
Le porsi anche un fazzoletto di carta. Non mi sembrava decoroso che si mostrasse tanto vulnerabile.
Sarebbe stato faticoso. Molto.

giovedì 14 febbraio 2008

Dieci

Nel capitolo precedente: ma pensa te. Mi dice che ha ricevuto una lettera dal signor Anselmo.
Il quale, all'anagrafe: morto.
Mah.
E gli diceva pure di portare una lettera, un'altra, a un signore, il Turri.
Che chissà chi cazzo è.
Ma insomma.
Meno male che la comare del bar di fronte lo ha scambiato per un Carabiniere.
Altrimenti vai a sapere che cosa andava a raccontarmi.
Ma sì, va, volentieri.
Due minuti, fumiamo va.
Almeno, le cose saranno più veloci.
Almeno, per adesso.
Almeno credo.


Lasciai tutto com’era, non pagai né salutai. La Comare non disse niente. Da quando facevo parte dell’Arma, aveva iniziato a temermi. E il timore è la base del rispetto, mi aveva detto la professoressa di greco e latino il primo giorno del liceo.
Arrivai e, come al solito, mi preparai un altro caffé, con la sambuca e la sigaretta sul piattino. Certe abitudini sono salutari, e non vanno cambiate. Aveva ragione su questo punto il signor Anselmo. Un uomo aveva bisogno dei suoi ritmi e delle sue certezze. Spensi la televisione e accesi la radio. Per evitare l’anarchia, lì dentro avrei preso io delle decisioni. Avevo sempre ammirato i grandi condottieri, Stalin in testa, e da loro dovevo pur imparato qualcosa. Non potevo prendere a picconate la televisione, come era stato fatto con Trockji, però potevo cercare un modo più moderno, più consono alle mie esigenze, seppur non tanto radicale. Avrei manomesso il cavo dell’antenna. E finché un tecnico televisivo non fosse andato a letto con una signorina, nessuno avrebbe contestato lo strapotere della radio.
Suonava la sigla del GR1 delle 13.00, quando il campanello suonò e i passi di Emily si avvicinarono al bancone. Li si riconosceva perché era una delle poche donne, se non l’unica, che camminava come un metronomo. Batteva in quattro quarti, certi giorni, come se stesse tenendo il tempo per una canzone raggae che solo lei conosceva.
In pochi secondi, con i gomiti appoggiati al bancone, le sue labbra a fissarmi immobili, le spiegai tutto. Sorrise spostando il peso sul piede sinistro.
“Andiamo da questo Alessandro Turri. Stasera stessa” fu la sola cosa che mi disse, prima di prendere le stanze con un cliente abituale.
“Non hai capito”, le risposi sperando che mi sentisse, “tu non ci vieni. Te l’ho detto perché lui…”
Ormai era lontana e già presa dai suoi impegni.
“Ma va’ via, vai…”, sibilai
Qualsiasi cosa avessi potuto dire, sapevo bene che sarebbe stata inutile. Le labbra mute delle donne non lasciano alcuno spazio alla discussione dialettica.

giovedì 7 febbraio 2008

Nove

Nel capitolo precedente: questo deve essere per forza un fissato.
Un fissato delle cose. Uno di quelli che, le fissazioni, ce le hanno nel sangue.
E la macchina, e va bene.
E la storia del bar, e va bene.
E la storia delle "signorine", e va bene.
Ma questa del vecchio morto apparente, per carità. E dire che ci crede! E come lui, ci ha creduto pure Emily!
Secondo me, lei, diciamo che aveva mire più lunghe.
Ma a pensare male, si fa peccato.
Però...
Però io, un po' mi sto stancando.
Parla sempre lui.
Adesso lo interrompo. E basta, basta.
Parliamo dell'Inter?
No. Inizia di nuovo.
Uff.


Ero contento del posto in cui abitavo. Un complesso di quattro condomini che non era né troppo in centro né troppo fuori. In venti minuti, si poteva arrivare in qualsiasi punto di Milano, paradossalmente.
I vari palazzi erano collegati tra loro da una sorta di labirinto in porfido. Era facile riuscire ad orientarsi, e questo poteva danneggiare i ladri. Però, una volta dentro, era anche difficile uscirne.
Tra condomini, qualora ci si incontrasse all’ingresso o all’uscita, ci si salutava con una certa confidenza, ma se ci si vedeva fuori, era già tanto un cenno del capo.
Secondo la leggenda, i milanesi non si danno troppo gli uni agli altri, ma quello che la gente non sa è che, dentro ai saluti e alle teste declinate, c’è tutto l’affetto e l’essere considerati che serve.
Di certo, il lusso non mancava al mio palazzo. Un centinaio di passi e c’era il supermercato, piccolo certo, ma con tutte le cose che potevano servire, dalle trappole per scarafaggi alle olive ripiene di peperoni. Poco più avanti stava la cartoleria, un po’ cara forse, ma in caso di emergenza era sempre presente. Il giornalaio stava alla distanza di un grido e, privilegio di pochi, dal portone lo si sarebbe potuto salutare, mentre il tabaccaio era già pronto con le sigarette.
Non mancava proprio niente.
Però mi faceva proprio uscire di testa il fatto che non ci abitasse nemmeno un handicappato. Mi irritava anche solo l’idea di dover cercare parcheggio. Una rabbia che nasceva dalla routine della posta, benché fosse un dovere che mi veniva in mente solo in casi eccezionali. Non avevo nessuno che mi scrivesse e, bollette e resoconti bancari, non erano la mia passione. Eppure, ero costretto a passare in portineria. Allora mi toccava lasciare la macchina in balìa della curva che sovrastava l’ingresso e ritirare ciò che dovevo. Per fortuna lo facevo pochissime volte, solo quando il portinaio mi citofonava e mi diceva di svuotare la casella, “ché dentro la roba non riesco più a farcela entrare!”
E pensai che, una volta tanto, si poteva anche evitare di fare scomodare quel pover’uomo.
Nonostante fosse pagato più che lautamente per il compito che sbrigava.
Non importava. Un minuto sarebbe bastato e la temperatura del motore dell’Alfa non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Fu così che scoprii che, nel mucchio di carta variamente colorata, tra il pollice e le altre dita, c’era una lettera del signor Anselmo. Per me.
Un morto che ti scrive. Per lo meno è strano. Anche se, lì per lì, mica mi diede fastidio.


Le strade delle grandi città, inondate di auto e pioggia, sono simili a grandi arterie umane intasate dal colesterolo. Le macchine, in fila come tanti bei soldatini, rinchiudono in sé migliaia di pensieri che non si possono immaginare, tra canzoni di innamorati, o a canzoni e basta. Un ragazzo pensava che la radio, sarebbe stato meglio che il padre la comprasse sul serio, piuttosto che continuare a canticchiare motivi rimasti a metà nella mente. Una donna si sfiorava con l’indice il labbro superiore, convinta in questo modo di ricucire una sbavatura del rossetto. Una signora anziana, con un vecchio cane come passeggero, borbottava di quando quella volta in cui, quelle strade, erano un luogo in cui passeggiare la domenica pomeriggio.
Camminavo passo dopo passo, nella convinzione che dopo tanti anni la macchina mia, almeno una su un milione, fosse il caso di lasciarla parcheggiata nel box. Di chilometri ne aveva fatti, e tanti, quindi era cosa buona e giusta darle una tregua.
Era lo stesso che farsi la doccia l’indomani mattina piuttosto che la sera, convinti che in questa maniera si sarà puliti per un giorno di più.
Fino al mattino precedente non mi sarebbe certo venuta in mente una cosa del genere, ma non so perché mi svegliai con quell’idea. Non c’era niente di programmatico, sia chiaro. Altro che ecologisti e balle varie.
E fu anche un’idea che non si sarebbe più affacciata, visto che avevo scelto la mattina più piovosa dell’anno per scegliere di muovermi a piedi. E, grazie al vento, non riuscivo nemmeno ad accendere la prima sigaretta della giornata.
“Forse sarebbe il caso di smettere anche con queste” mi sussurrai, come se dicendolo ad alta voce avesse più peso. Ma già è troppo difficile cambiare un’abitudine sola, figuriamoci due. Contemporaneamente, poi.
Schivavo le pozzanghere e schivavo i passanti che si muovevano sui marciapiedi in ordine sparso. Avei voluto rituffarmi nella lettera del signor Anselmo, ma il fatto che le pozze non mi permettessero di avere una camminata coerente con qualsiasi principio, annullava qualsiasi intenzione.
Ci misi meno tempo del previsto ad arrivare al lavoro. Il posto per gli handicappati era libero. D’altra parte, io non lo avevo nemmeno mai visto occupato se non dalla mia Alfetta gialla.
Che non ci fossero handicappati nel palazzo sopra il bar, era evidente. Forse, lo spazio, l’avevano fatto mettere per sentirsi un po’ più in pace con il mondo. Come quelli che si preoccupano delle mille guerre che ci sono e adottano un bambino negro, una famiglia di terremotati nell’Indocina, una foca nana e un koala australiano. E poi sono gli stessi che, prima si fanno lavare il vetro al semaforo, e poi gridano al marocchino di trovarsi un lavoro. Probabilmente, sono così carogne perché la loro bontà la mettono tutta nelle azioni a distanza.
Fatto sta che ero in anticipo e io, di lavorare gratis, non ne avevo la minima intenzione. Fui costretto a rifugiarmi nel bar della Comare. Speravo non mi riconoscesse, almeno come amico del signor Anselmo. Le avrei dovuto dare la notizia della morte? In questi casi può succedere che uno si redime e si pente di una vita di peccato. Ma qualora questo non fosse successo, le sarei saltato al collo.
Entrai e mi sedetti, le spalle al banco. Volevo poter guardare fuori, ma soprattutto non volevo poter vedere lei.
“Lei è quel Carabiniere in borghese, vero?” si affrettò a portarmi un caffé. E scoprii questa piccola verità: benché lo stipendio dei Carabinieri fosse, a loro dire, basso, per loro molte cose non era necessario pagarle. Di conseguenza, il loro stipendio diventava una cifra considerevole. Per lo meno, aveva un buon potere d’acquisto, diciamo.
Comunque, restai al gioco. Poteva venirmi utile. Feci un cenno con la testa. Mi lasciò il caffé e andò via. Non le diedi la soddisfazione di un sorriso o di un grazie, volevo che mi temesse.
Aprii ancora la lettera del signor Anselmo e la riguardai. Scriveva a penna blu, punta sottile, in caratteri stampatello minuscolo, ciascuno leggermente staccato dall’altro. Sembrava fosse una sorta di cirillico europeo. Divertente, tutto sommato. Chissà come, chissà quando, aveva imparato a scrivere.
Nella pagina singola, fitta che mi aveva scritto, il signor Anselmo si diceva contento di avermi incontrato. Si era legato a me e sapeva che di me si poteva fidare.
Certo, pensai ridendo. Ormai ero un Carabiniere in borghese.
Mi diceva che stava bene e che era anche contento io lo stessi. Anche se ultimamente mi vedeva leggermente dimagrito. E mi voleva molto bene. Si sarebbe allontanato per un tempo che definiva considerevole. Non sapeva quando ci saremmo rivisti, ma un po’ di tempo sarebbe passato di certo. Per un motivo che non mi poteva spiegare, inoltre, aveva inserito un’altra lettera all’interno della busta che aveva spedito a me. Era per un certo Alessandro Turri, un amico di vecchia data, e mi chiedeva se gentilmente potevo portargliela io. Mi diceva che avrei dovuto farlo a mano, tanto abitava anche lui a Milano.
Nulla più. Aggiungeva solo che avrei dovuto stare veramente attento ad Emily.
Soprattutto sul lungo termine, diceva. Chissà perché, poi. Non importava.
Mi prendevo già abbastanza cura di Emily. E non avevo mai amato strafare.
Presi in mano la lettera di Alessandro Turri, via Novara. Fortuna sapevo dov’era. Se avessi anche dovuto sbattermi con cartine e mica cartine, la voglia mi sarebbe passata su due piedi.
Però. Una serie di punti mi lasciavano per lo meno perplesso.
Come faceva a sapere che stavo bene nonostante fossi dimagrito. Io non lo avevo incontrato dal giorno in cui era andato in pensione. Se mi aveva incontrato senza salutarmi, non c’erano parole per giustificarmi. Sempre meglio però di un guardone. E poi la lettera al Turri. Non poteva spedirgliela lui? O portargliela lui, almeno. Per cosa mi aveva preso, un Pony Express? O forse, da uomo senza figli, gli aveva parlato di me e voleva farmi conoscere ad un suo amico. Possibile, anche se non probabile. Ma non poteva svegliarsi prima? Un incontro normale, no?
E anche il viaggio, mi lasciava perplesso. Dove doveva andare? Non importa. Ma il lasso di tempo considerevole, letto così, tuttavia mi fece sorridere: era morto. Il tempo doveva essere considerevole per forza!
Mi voleva bene e chissà che cosa c’era nella lettera al Turri. Magari era gay. E io, da solo, non me ne ero nemmeno accorto. Non importava, tanto con me non ci aveva provato. O sì?
Nemmeno questo era importante. Mi stavo incazzando.

venerdì 1 febbraio 2008

Otto

Nel capitolo precedente: veramente. Questo qui, veramente, sembra un pazzo. Va bene che ci resti male. Va bene che ti fa anche soffrire. Sai, un amico che sparisce, poi. Senza nemmeno riuscire a salutarlo.
Però, mi sembra che sia ostinato. Troppo. E poi girare a caso, alla ricerca di chissà che cosa.
Sembra quasi la coda della lucertola quando non è più legata al corpo. Che si agita scomposta tra le falangette dell'indice e del pollice.
Però, che strano. Più va avanti e più anche a me sembra che qualcosa manchi. Come quella signora, quella del bar di fronte.
Chè l'Anselmo non era altro che un bugiardo.
Mah.
Non lo so.
Speriamo solo che non tratti male quella Emily lì.
Deve essere proprio bella, quella Emily lì.



Glielo dissi una mattina, in cui nemmeno trovai il tempo per salutarla.
“Emily. Forse hai ragione. Il signor Anselmo, intendo. C’è qualcosa che non capisco”.
Ci restò di sasso. Forse non se lo aspettava, nei suoi occhi spalancati. Forse nemmeno lei ne voleva la conferma e mi usava da contraltare alle sue illazioni da dodicenne. Certo, lo sapevo anche io, era facile da pensare a un complotto da soli, la televisione ce lo aveva insegnato da dio. Ma se due persone fanno lo stesso sogno, è naturale che si preoccupino.
Avevo bisogno di parlarne con qualcuno. Però prima tornai all’appartamento che, benché vuoto, nascondeva ancora qualche curiosità. Come, ad esempio, quella pila di fogli che tutti hanno, sicuramente, di lettere non spedite.
In macchina, senza riuscire a superare i 50 chilometri l’ora e senza sapere se mettere la terza o meno, mi chiesi se effettivamente cominciavo a credere a quella storia, o se solo era un modo per non accettare una morte tanto banale. Che, in effetti, un giorno sarebbe potuta capitare anche a me.
La signora anziana che gli abitava accanto oramai conosceva il mio volto e non mi fece nessuna osservazione quando entrai. Mi considerava un poveraccio che lavorava col corpo e che dalla mente non avrebbe ottenuto niente più che una fatica di braccia. Mi salutò con un ondeggiamento riverenziale della veste. Nel casino generale delle pile di giornali, abiti e carte, riposizionai la poltrona nel luogo originale e mi guardai attorno.
Avevamo fatto un ottimo lavoro, io ed Emily. L’appartamento era irriconoscibile. Per fortuna, lei era una maniaca delle fotografie e ne aveva fatte a bizzeffe. Gliele avrei chieste l’indomani. Bisognava riportare tutto nelle originarie posizioni. Lì, e solo allora, avrei trovato o meno la chiave della situazione. Magari non c’era niente da scoprire, ma coi piedi fissati nella polvere, questo sfizio da investigatore volevo togliermelo.

Emily mi portò le foto dopo circa una settimana. Andammo insieme alla casa di ringhiera del signor Anselmo e le auto parcheggiate lungo la strada non immaginavano nemmeno quale attesa per una qualche scoperta mi rovinava dentro.
Sembravano stupite, nei loro musi lunghi, di trovarmi ancora lì.
Sul fondo della stanza, con le gambe allacciate tra loro in modo quasi innaturale, Emily mi osservava. Mi agitavo per riprodurre fedelmente l’ambientazione proposta dalle foto. Ci misi un po’ e, asciugandomi una goccia di sudore che fastidiosamente pendeva sulla fronte, mi misi accanto a lei soddisfatto.
“E ora?” mi domandò sorridendo appena, come se fossi un idiota.
“E ora aspettiamo di trovare qualcosa”.
“Se qualcosa la cerchi, la trovi. Se c’è però. Se no, puoi attaccarti al tram”.
“Emily! Un po’ più di fiducia…”. Avevo capito che per lei, i sospetti e tutto il resto, erano solo una specie di gioco. Ma ora che bisognava giocare, veniva fuori che l’anima da dura, l’aveva lasciata in chissà che abito di carnevale.
La sera stava tornando e le ombre si allungavano su tutto il pavimento, scandendo come una meridiana le righe che dividevano le piastrelle. Un altro buco nell’acqua, non potevo sopportarlo. Per lo meno, a mio vantaggio, mi avrebbe distrutto il castello di illazioni che mi ero costruito.
E infatti fu così, carta dopo carta, mano dopo mano, cercavo di ridisegnare quel mondo, fino a che non si avvertirono i primi gorgoglii degli stomaci. Cosa più che naturale, è ovvio. Ma uno stomaco che gorgoglia, dà sempre un po’ fastidio, mi aveva detto una volta il signor Anselmo, citando chissà che cosa, chissà di chi.
Mi sollevai dalla poltrona che per un pomeriggio si era trasformata in una sorta di punto di vedetta.
Emily si alzò, anche lei piuttosto perplessa, convinta di aver buttato via un intero giorno libero.
Mi sentivo in colpa per questo. Anche perché ci sarebbe voluto ancora del tempo per riammassare tutto nell’angolo. In fondo, un giorno intero di riposo non lo era solo per lei, ma anche per quelle parti del corpo che stressate a lungo, si rovinano.
Decisi che sarebbe finita lì, basta. Presi la chiavi dalla mensola quando ormai non ci si vedeva più e chiudemmo la porta, lasciandole dietro un lavoro che era stato già fatto e che si sarebbe dovuto fare daccapo.
Scendendo le scale costruite attorno a un ascensore coi cavi esposti, di quelli che mettono paura ad ogni sussulto, pensai che una volta a casa, forse era il caso di ritirare la posta. Intasata, come per tutti, dalle locandine pubblicitarie di scarpe e attrezzi da trekking. E mentre inserivo la chiave nel cruscotto dell’Alfa, pensai che il signor Anselmo aveva avuto un infarto come tanti. E che l’unica cosa di cui bisognava dispiacersi, era che non si era goduto nemmeno la pensione.
Sarei tornato a prendere la Cinquecento, poteva tornarmi utile, quello sì. In fondo, l’Alfa consumava un po’ troppo per quello che era il mio salario, e un’utilitaria piccola ed economica poteva farmi comodo. Ma l’appartamento, quello l’avrei fatto liberare da degli operai. Non avevo più intenzione di rimetterci piede.