venerdì 4 aprile 2008

Quindici

Nel capitolo precedente: le cose scivolano così.
Uno fa un passo alla volta. Poi sembra che non serva a niente.
Prendi loro. Vanno, fanno, disfano.
E sembra anche che non serva a nulla.
Ma poi magari a qualcosa serve.
A qualcosa serve sempre.
Questo lo sanno tutti.
Ma a cosa, purtroppo, non lo sa nessuno.


La luce della televisione illuminava la stanza in maniera intermittente. Se non avesse avuto l’audio, sarebbe stata una degna alternativa a un abatjour.
Emily non ne aveva voluto sapere di andare via, e mi aveva seguito lungo le scale dei box, in casa, fino in cucina. Non capivo a fondo il suo comportamento, ma i suoi passi in quattro quarti, in effetti, non mi dispiacevano affatto.
Tolsi il volume alla televisione, e mi sedetti al tavolo. Lei di fronte a me.
Non sapevo se il mio viso era messo in ombra dalla sua testa, ma restava il fatto che io, negli occhi, non riuscivo a vederla. La luce dello schermo, alle sue spalle, le evidenziava il perimetro dei capelli, come fosse un’aura moderna. O la vecchia pubblicità dell’AIDS.
Mentre pensavo a queste cose, lei, come se a casa mia ci fosse già stata, prese i bicchieri dalle ante sopra il lavello e la bottiglia di vino dallo sgabuzzino. Ondeggiava sulle anche quasi come una ballerina.
Era un vino della Valtellina, di quelli buoni che sempre provengono da uve di Nebbiolo. Non potevo esimermi dalla constatazione che era uno dei miei preferiti.
“Ma come facevi a saperlo?” le domandai.
“Tutti, in tutte le case, hanno dei bicchieri sopra il lavello e il vino, lo tengono nello sgabuzzino e nelle ante in fondo in cucina. A meno che non sia a vista, d’accordo. Come le posate. Sono sempre nel primo cassetto. Facile, no?”
In effetti aveva ragione. Ci sono particolari che rientrano nel codice genetico delle persone.
Per i francesi la R uvulare, per i tedeschi la durezza e rigidità, per le svedesi la bellezza, per i cinesi il riso. Non si scappa.
Fatto sta che, seduti uno di fronte all’altra, i pensieri ci imbrigliavano quasi fossero fango. Non riuscivo a fermarne nemmeno uno, come se in realtà non pensassi, e probabilmente per Emily era lo stesso. Negli appartamenti accanto al mio, si sentiva la vita sfilare indifferente ai miei bisogni. I rumori di piatti e di televisioni annunciavano la cena, insieme al vociare sommesso sulla giornata appena trascorsa, che non avevo mai capito. Quando i miei genitori si raccontavano in maniera più o meno concitata ciò che era loro successo, da bambino sciocco mi ci arrabbiavo. Non capivo che senso avesse condividere una giornata normale, proprio per loro che, in condivisione, oramai avevano già tanto tempo.
Eppure, quella sera con Emily di fronte, ne sentii il bisogno.
E fui pronto per sfiorarle una mano, la allungai lentamente con fare distratto e sentivo il sangue che cominciava a scorrere velocemente nelle vene. La muscolatura delle falangi sembrava gonfiarsi e inibire i movimenti, come quando le braccia diventano di legno dopo aver fatto uno sforzo da portuali. Potevo quasi sentire il contatto, potevo immaginare di sfiorarla, quando iniziò a parlare. E tutto si ruppe. Rilassai i muscoli tesi e inspirai.
“Sentiamo”, dissi scontento.
A lei non tornavano i conti. Si lamentava del mio procedere a tentoni. Che cosa pretendeva. Mica ero un investigatore privato. E poi chi ha detto che procedevamo in modo sbagliato, dal momento che c’è un modo giusto o sbagliato di procedere se, per procedere, si ha un punto verso cui procedere.
“Perché se questo punto non c’è, mi dici che senso ha, cara?” mi stavo stizzendo ed ero acido. In primis, perché non sopportavo le critiche. Secondo, perché avevo altre intenzioni. Infine, perché se uno si mette nei casini, deve sbrigarsela da solo. E poi volevo fare altro, ecco.
Ma nonostante il mio malumore, continuò.
“Anche se è morto?”
“Anche se è morto. Poteva pensarci prima.”
“Sì. Pensarci prima a morire”
“No. Pensarci prima e basta. Prima di mettersi nei casini. La morte, alla fine, è sempre dietro l’angolo. Per questo uno deve sempre seguire la massima di Confucio:” le risposi trionfale citando il signor Anselmo, “fatti i cazzi tuoi”.
L’avevo stesa ed era chiaro. Ma anziché sentirmi un piccolo Cesare, mi sentivo un piccolo imbecille.
Forse perché l’avevo ferita.
Ma non importava, ci sono situazioni in cui tutto è lecito. Soprattutto quando lo scambio è uno a uno: o io o lei. E in quel caso, in ogni caso, era meglio io.
Però restava un fondo di vero, nell’affermazione di Emily. E forse per recuperare, forse perché anche io ne ero convinto, glielo dissi.
“In effetti, le cose non tornano. La lettera per il Turri che aveva scritto a me. E il Turri era morto una decina di anni prima. E il signor Anselmo non poteva non saperlo, se poi sulla tomba c’era un signor Nessuno che mi aspettava. Bo.” Conclusi. Bevvi il vino nel bicchiere d’un fiato, come fanno gli anziani dopo una mano di carte venuta male, nei circoli di bocce.
Emily invece sorseggiò. E leccandosi il labbro superiore, cominciò.
“Senti. Vediamola così. Mi hai detto dell’odore di caffé. E nemmeno con la Comare, la cosa non rientra. Allora quello può essere un punto. Punto che non rientra però con la casa. O non ci abitava in quella casa, o a te, ti ha mentito.
Nella lettera che ti ha spedito, ha detto che sarebbe partito per un lasso di tempo abbastanza ampio. Allora, ad esempio, perché l’affitto scade tra sei mesi e non subito?”
Come è strano notare che, quando le discussioni si fanno più focose e le distanze diventano maggiori, anche il linguaggio cambia. e diventa più forbito.
“Sì, magari è un’idea. Ma magari ci sono anche delle difficoltà contrattuali, che ne sai. O forse, la sua idea di tanto tempo può essere anche un mese. O forse non voleva perdere la casa. Che ne sai. Certo non aveva calcolato di morire!”
“Può essere, va bene. Ma come ti spieghi il Turri. Voleva che venissimo a conoscenza della sua morte, della tipologia più che altro, no?” e, mentre mi spuntava un sorriso sopra i denti, Emily si irrigidì fino a gelarmi con gli occhi. Abbassai la testa e, se avessi potuto, avrei abbassato anche le orecchie sugli occhi. Finsi che invece non mi era capitato niente, cercando le sigarette in tasca. Ottima trovata, per recuperare la mia posizione.
Spesso con Emily mi sentivo così. Un giocatore fuori ruolo alla mercè dei cronisti. E quelli dei lei erano gli occhi dell’allenatore che ti rimproverano e allo stesso tempo ti spronano. Una cicatrice che poi, per forse tutto il campionato, tra l’orecchio e l’angolo della bocca, con quanti punti di sutura vuoi, non sarà mai del tutto rimarginata. Sbadigliai.
“Probabilmente, volevano che arrivassi fin lì, idiota. Non ci hai pensato?” mi rimbrottò.
Il tabacco e la carta cominciarono a bruciare sfrigolando.
“Probabile. Non sapevo di questo tuo fiuto, però. Allora adesso dobbiamo aspettare che qualcuno o qualcosa ci dica che fare, semplicemente.”
“No. Cerchiamo di capire il tuo odore di caffé.”
“Ma da dove partiamo, capa?” un po’ mi stavo cominciando a divertire. Anche se le redini dovevano tornare in mano mia. Il signor Anselmo conosceva me, non lei. Aveva lasciato tutto a me, non a lei. Aveva spedito la lettera a me, non a lei. Glielo feci presente.
“Chiaro. Allora arrangiati. Io vado a casa. Fattelo da solo” disse mentre le gambe della sedia cominciarono a trascinarsi sulle piastrelle del pavimento.
“No, no, aspetta. Ok, facciamo insieme” e lei si rimise a sedere, respirando paziente come una mamma.
“Ancora una cosa, Emily. Perché mi ha detto di prendermi cura di te, se non vi siete mai conosciuti?”, le chiesi con il dubbio venuto fuori come un singhiozzo.
“Senti. Io non lo conoscevo. Però anche a te ha detto che ti trovava bene, anche se un po’ dimagrito. Evidentemente ti osservava e, se osservava te, avrò visto anche me. Non ti pare?”
Mi aveva battuto. Anzi, mi aveva proprio fregato. E nel suo volto contratto si notava chiaramente che aspettava una mia risposta che confermasse la sconfitta.
Con un cenno di assenso gliela concessi. Ma pensai che lì dentro ero io l’uomo, cercando il qualche modo di pareggiare la partita. E poi io giocavo in casa. E non contava niente che i gol fuori casa valessero doppio. In questa competizione, per lo meno, non importava.
“Va bene, dai. Vuoi una sigaretta?” dissi. Se non avessi avuto l’ultima battuta, quella di chiusura del discorso, sarei andato troppo giù. Dovevo ripreparare la piana di contesa.
Però, me ne rendevo conto, questo gioco cominciava a piacermi. O forse mi piaceva stare con lei.
“E domani allora andiamo a prendere la Cinquecento. Dobbiamo cominciare a pensare come il signor Anselmo. L’ho visto nei film”, dissi fiero di una mia conclusione, spegnendo il mozzicone nel posacenere. Non ci riuscii del tutto. Un filo di fumo si alzava ancora. Mi alzai e vi misi dentro un po’ d’acqua. Avevo sempre avuto paura dei fuochi.
Emily scosse la testa come a dire no, ma non lo disse. Avevo proprio voglia di andare in giro con quella scatolina bianca.
Lei, fu chiaro, capì il mio pensiero.
“Togliti quel sorriso dalle labbra. Sembri uno stupido”. Sorrise, come solo in certi momenti si sorride. Allungai il dito a sfiorarle il labbro inferiore, come se così facendo potessi rapire un po’ di quella bellezza ingenua. Il lampadario rifletteva l’ombra del mio braccio sul tavolo, il calore del respiro che le usciva dal naso mi sfiorava il dorso della mano. Non mi vennero in mente né il bue né l’asinello, ma quel vago odore di marsiglia che si alzava nella cucina mi scuoteva alla bocca dello stomaco.
Nella testa e davanti agli occhi mi scorrevano veloci le immagini degli ultimi giorni. Quel finto enigma cui non sapevamo rispondere, quell’inchiesta da poveri in cui c’eravamo imbarcati più con curiosità che con istinto poliziesco e le mani di Emily che si agitavano lente nel suo modo di parlare.
La mascella si mosse e si contrasse nel desiderio di baciarla. Stava cambiando qualcosa, tra noi e intorno a noi.
Forse, davvero, eravamo vicini a qualcosa.

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