giovedì 7 febbraio 2008

Nove

Nel capitolo precedente: questo deve essere per forza un fissato.
Un fissato delle cose. Uno di quelli che, le fissazioni, ce le hanno nel sangue.
E la macchina, e va bene.
E la storia del bar, e va bene.
E la storia delle "signorine", e va bene.
Ma questa del vecchio morto apparente, per carità. E dire che ci crede! E come lui, ci ha creduto pure Emily!
Secondo me, lei, diciamo che aveva mire più lunghe.
Ma a pensare male, si fa peccato.
Però...
Però io, un po' mi sto stancando.
Parla sempre lui.
Adesso lo interrompo. E basta, basta.
Parliamo dell'Inter?
No. Inizia di nuovo.
Uff.


Ero contento del posto in cui abitavo. Un complesso di quattro condomini che non era né troppo in centro né troppo fuori. In venti minuti, si poteva arrivare in qualsiasi punto di Milano, paradossalmente.
I vari palazzi erano collegati tra loro da una sorta di labirinto in porfido. Era facile riuscire ad orientarsi, e questo poteva danneggiare i ladri. Però, una volta dentro, era anche difficile uscirne.
Tra condomini, qualora ci si incontrasse all’ingresso o all’uscita, ci si salutava con una certa confidenza, ma se ci si vedeva fuori, era già tanto un cenno del capo.
Secondo la leggenda, i milanesi non si danno troppo gli uni agli altri, ma quello che la gente non sa è che, dentro ai saluti e alle teste declinate, c’è tutto l’affetto e l’essere considerati che serve.
Di certo, il lusso non mancava al mio palazzo. Un centinaio di passi e c’era il supermercato, piccolo certo, ma con tutte le cose che potevano servire, dalle trappole per scarafaggi alle olive ripiene di peperoni. Poco più avanti stava la cartoleria, un po’ cara forse, ma in caso di emergenza era sempre presente. Il giornalaio stava alla distanza di un grido e, privilegio di pochi, dal portone lo si sarebbe potuto salutare, mentre il tabaccaio era già pronto con le sigarette.
Non mancava proprio niente.
Però mi faceva proprio uscire di testa il fatto che non ci abitasse nemmeno un handicappato. Mi irritava anche solo l’idea di dover cercare parcheggio. Una rabbia che nasceva dalla routine della posta, benché fosse un dovere che mi veniva in mente solo in casi eccezionali. Non avevo nessuno che mi scrivesse e, bollette e resoconti bancari, non erano la mia passione. Eppure, ero costretto a passare in portineria. Allora mi toccava lasciare la macchina in balìa della curva che sovrastava l’ingresso e ritirare ciò che dovevo. Per fortuna lo facevo pochissime volte, solo quando il portinaio mi citofonava e mi diceva di svuotare la casella, “ché dentro la roba non riesco più a farcela entrare!”
E pensai che, una volta tanto, si poteva anche evitare di fare scomodare quel pover’uomo.
Nonostante fosse pagato più che lautamente per il compito che sbrigava.
Non importava. Un minuto sarebbe bastato e la temperatura del motore dell’Alfa non se ne sarebbe nemmeno accorta.
Fu così che scoprii che, nel mucchio di carta variamente colorata, tra il pollice e le altre dita, c’era una lettera del signor Anselmo. Per me.
Un morto che ti scrive. Per lo meno è strano. Anche se, lì per lì, mica mi diede fastidio.


Le strade delle grandi città, inondate di auto e pioggia, sono simili a grandi arterie umane intasate dal colesterolo. Le macchine, in fila come tanti bei soldatini, rinchiudono in sé migliaia di pensieri che non si possono immaginare, tra canzoni di innamorati, o a canzoni e basta. Un ragazzo pensava che la radio, sarebbe stato meglio che il padre la comprasse sul serio, piuttosto che continuare a canticchiare motivi rimasti a metà nella mente. Una donna si sfiorava con l’indice il labbro superiore, convinta in questo modo di ricucire una sbavatura del rossetto. Una signora anziana, con un vecchio cane come passeggero, borbottava di quando quella volta in cui, quelle strade, erano un luogo in cui passeggiare la domenica pomeriggio.
Camminavo passo dopo passo, nella convinzione che dopo tanti anni la macchina mia, almeno una su un milione, fosse il caso di lasciarla parcheggiata nel box. Di chilometri ne aveva fatti, e tanti, quindi era cosa buona e giusta darle una tregua.
Era lo stesso che farsi la doccia l’indomani mattina piuttosto che la sera, convinti che in questa maniera si sarà puliti per un giorno di più.
Fino al mattino precedente non mi sarebbe certo venuta in mente una cosa del genere, ma non so perché mi svegliai con quell’idea. Non c’era niente di programmatico, sia chiaro. Altro che ecologisti e balle varie.
E fu anche un’idea che non si sarebbe più affacciata, visto che avevo scelto la mattina più piovosa dell’anno per scegliere di muovermi a piedi. E, grazie al vento, non riuscivo nemmeno ad accendere la prima sigaretta della giornata.
“Forse sarebbe il caso di smettere anche con queste” mi sussurrai, come se dicendolo ad alta voce avesse più peso. Ma già è troppo difficile cambiare un’abitudine sola, figuriamoci due. Contemporaneamente, poi.
Schivavo le pozzanghere e schivavo i passanti che si muovevano sui marciapiedi in ordine sparso. Avei voluto rituffarmi nella lettera del signor Anselmo, ma il fatto che le pozze non mi permettessero di avere una camminata coerente con qualsiasi principio, annullava qualsiasi intenzione.
Ci misi meno tempo del previsto ad arrivare al lavoro. Il posto per gli handicappati era libero. D’altra parte, io non lo avevo nemmeno mai visto occupato se non dalla mia Alfetta gialla.
Che non ci fossero handicappati nel palazzo sopra il bar, era evidente. Forse, lo spazio, l’avevano fatto mettere per sentirsi un po’ più in pace con il mondo. Come quelli che si preoccupano delle mille guerre che ci sono e adottano un bambino negro, una famiglia di terremotati nell’Indocina, una foca nana e un koala australiano. E poi sono gli stessi che, prima si fanno lavare il vetro al semaforo, e poi gridano al marocchino di trovarsi un lavoro. Probabilmente, sono così carogne perché la loro bontà la mettono tutta nelle azioni a distanza.
Fatto sta che ero in anticipo e io, di lavorare gratis, non ne avevo la minima intenzione. Fui costretto a rifugiarmi nel bar della Comare. Speravo non mi riconoscesse, almeno come amico del signor Anselmo. Le avrei dovuto dare la notizia della morte? In questi casi può succedere che uno si redime e si pente di una vita di peccato. Ma qualora questo non fosse successo, le sarei saltato al collo.
Entrai e mi sedetti, le spalle al banco. Volevo poter guardare fuori, ma soprattutto non volevo poter vedere lei.
“Lei è quel Carabiniere in borghese, vero?” si affrettò a portarmi un caffé. E scoprii questa piccola verità: benché lo stipendio dei Carabinieri fosse, a loro dire, basso, per loro molte cose non era necessario pagarle. Di conseguenza, il loro stipendio diventava una cifra considerevole. Per lo meno, aveva un buon potere d’acquisto, diciamo.
Comunque, restai al gioco. Poteva venirmi utile. Feci un cenno con la testa. Mi lasciò il caffé e andò via. Non le diedi la soddisfazione di un sorriso o di un grazie, volevo che mi temesse.
Aprii ancora la lettera del signor Anselmo e la riguardai. Scriveva a penna blu, punta sottile, in caratteri stampatello minuscolo, ciascuno leggermente staccato dall’altro. Sembrava fosse una sorta di cirillico europeo. Divertente, tutto sommato. Chissà come, chissà quando, aveva imparato a scrivere.
Nella pagina singola, fitta che mi aveva scritto, il signor Anselmo si diceva contento di avermi incontrato. Si era legato a me e sapeva che di me si poteva fidare.
Certo, pensai ridendo. Ormai ero un Carabiniere in borghese.
Mi diceva che stava bene e che era anche contento io lo stessi. Anche se ultimamente mi vedeva leggermente dimagrito. E mi voleva molto bene. Si sarebbe allontanato per un tempo che definiva considerevole. Non sapeva quando ci saremmo rivisti, ma un po’ di tempo sarebbe passato di certo. Per un motivo che non mi poteva spiegare, inoltre, aveva inserito un’altra lettera all’interno della busta che aveva spedito a me. Era per un certo Alessandro Turri, un amico di vecchia data, e mi chiedeva se gentilmente potevo portargliela io. Mi diceva che avrei dovuto farlo a mano, tanto abitava anche lui a Milano.
Nulla più. Aggiungeva solo che avrei dovuto stare veramente attento ad Emily.
Soprattutto sul lungo termine, diceva. Chissà perché, poi. Non importava.
Mi prendevo già abbastanza cura di Emily. E non avevo mai amato strafare.
Presi in mano la lettera di Alessandro Turri, via Novara. Fortuna sapevo dov’era. Se avessi anche dovuto sbattermi con cartine e mica cartine, la voglia mi sarebbe passata su due piedi.
Però. Una serie di punti mi lasciavano per lo meno perplesso.
Come faceva a sapere che stavo bene nonostante fossi dimagrito. Io non lo avevo incontrato dal giorno in cui era andato in pensione. Se mi aveva incontrato senza salutarmi, non c’erano parole per giustificarmi. Sempre meglio però di un guardone. E poi la lettera al Turri. Non poteva spedirgliela lui? O portargliela lui, almeno. Per cosa mi aveva preso, un Pony Express? O forse, da uomo senza figli, gli aveva parlato di me e voleva farmi conoscere ad un suo amico. Possibile, anche se non probabile. Ma non poteva svegliarsi prima? Un incontro normale, no?
E anche il viaggio, mi lasciava perplesso. Dove doveva andare? Non importa. Ma il lasso di tempo considerevole, letto così, tuttavia mi fece sorridere: era morto. Il tempo doveva essere considerevole per forza!
Mi voleva bene e chissà che cosa c’era nella lettera al Turri. Magari era gay. E io, da solo, non me ne ero nemmeno accorto. Non importava, tanto con me non ci aveva provato. O sì?
Nemmeno questo era importante. Mi stavo incazzando.

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