giovedì 24 aprile 2008

Sedici

Nel capitolo precedente: si può essere felici anche con poco.
Si può essere felici anche con meno.
L'importante è capire per cosa si è felici.
E a questo qui, probabilmente, secondo me, basta stare con lei.
Anche perché, secondo me, non ci sta proprio capendo niente.
Ma ti pare che si va in giro per tutta Milano come dei deficienti?
E poi, ancora secondo me, qui qualcuno porta sfiga.
Muoiono tutti...moriranno anche loro!
Almeno, adesso, son vicini a qualcosa... a qualsiasi cosa...Ma cosa?


E invece a qualcosa, non eravamo vicini per un cazzo. E questo pesava anche su di me che, lo sentivo nelle dita, non riuscivo a toccare più niente. Tutto era rimasto sospeso a livello di parole. O di banalità da quattro soldi, come i gialli delle fiction televisive campioni d’incasso. Per un po’ ci si poteva anche giocare su, girare alla scoperta di chissà che America, cercare strade nuove, alcune da imparare altre ben note, poter decidere che auto prendere e quindi sentirsi un po’ ricco e un po’ in incognito ogni volta.
Solo che dopo un po’ che se ne parla, se ne parla un po’ meno, sempre meno, finché la cosa scema e poi non se ne parla più. Come un sogno che diventa ambizione, quindi un progetto e poi diventa un ricordo.
Fuori pioveva, e pioveva anche tanto. Era domenica mattina, e l’inverno era lì senza che sapessi dove fossero i maglioni. Sentivo le gocce battere sui vetri come aghi secchi di pino.
Appoggiato sui gomiti e sul bancone, pensavo che sarebbe stato difficile, per la squadra di casa, giocarsi la partita a San Siro, con le zolle che si alzano, l’erba pesante, le pozzanghere davanti alle porte e tutto il resto. Per non parlare delle dita dei piedi degli spettatori che si sarebbero atrofizzate sugli spalti. Però, per quanto mi riguardava, cambiava poco. Ero all’asciutto e il calcio lo seguivo poco. Oppure, ero semplicemente vittima della pigrizia che assale ogni persona quando fuori fa freddo. Ma va’. Era solo l’incipit della stanchezza che nasce sempre dopo l’inizio.
Infatti, dopo averne discusso con Emily a casa mia, ci eravamo trasformati in una sorta di Starsky ed Hutch all’italiana. Automobile anni 70, giri immani per la città seguendo delle piste che erano basate più sulle intuizioni, che su dei sospetti. E buttarci la sera sul divano, insieme come due note di un accordo, mi bastava a ricaricare le pile per il giorno dopo. Però poi non bastò più, e anziché ricaricare al cento per cento, si arrivava all’ottanta. Poi al settanta, al sessanta, al quarantacinque. E così via, verso lo zero.
Me ne accorsi quando feci il terzo pieno in tre giorni. Alla Fiat Cinquecento, una macchina che praticamente consumava come un Vespino. La cosa non era più sostenibile. Certo, era bello aver di che parlare per ore e naufragare nelle strade, ma non avevamo concluso niente e, sinceramente, più che stanchezza, sentivo la noia salirmi nelle gambe.
Provavo la stessa sensazione da piccolo. Ad un certo punto dell’estate, forse qualche giorno prima di ferragosto, volevo lasciare i nonni in Molise e tornare a casa, a Milano. Nonostante sapessi che anche di quello mi sarei stancato presto e mi sarebbero mancate le patatine a forma di bambino della nonna, qualcuna senza un braccio o una gamba. Ma volevo tornare a casa mia e basta. Per sentire ancora una volta quell’odore di chiuso di due mesi e ritrovare nei cassetti le macchinine nascoste nel timore di chissà cosa.
Tanto più che la Cinquecento era uscita di molto dal confine del gioco. Qualche giorno prima, fu proprio la vecchia Fiat bianca a darmi uno dei più grandi dispiaceri. Nessun guasto, certe meccaniche durano quarant’anni, figurarsi, ma lei, parcheggiata nel box, muso in avanti e sterzo girato di 90 gradi, be’, non era la stessa cosa. Sarà stato forse per nostalgia, ma era una questione di linea, di stile, che l’Alfa aveva e la Cinquecento no, tutto qui. O forse era solo questione d’amarezza, visto che l’Alfetta me l’avevano portata via dei ladri vigliacchi, di notte, senza nemmeno accenderla. Anche perché, a far girare il motore, uno se ne sarebbe accorto.
Certi suoni sono come i pianti dei proprio figli.
Avevano fatto un lavoro di fino. Serratura de garage intatta, addirittura avevano richiuso la porta. Ai Carabinieri, durante la denuncia, sembrò strano. Secondo loro ero un drogato ubriacone che l’aveva parcheggiata chissà dove e se l’era scordato. Inoltre risultavo anche essere un disoccupato qualsiasi, e per fortuna. Se avessero saputo dove lavoravo, magari mi mettevano pure un galera.
O forse lo sapevano e quel gioco di sottintesi e “noi sappiamo che tu non sai” li divertiva un mondo. Invece io piangevo, le guance calde e l’aria quasi liquida in gola.
Sin dalla mattina mi ero svegliato con un groppo allo stomaco che non riuscivo a collegare a nulla. Forse alle mille sigarette fumate ogni giorno. Ma le mani tremavano e il perché non lo trovavo in nessuna spiegazione razionale.
E quando scesi ad aprire il box, vedere che solo l’ombra del tubo di scarico sul muro indicava la presenza dell’Alfa, mi fece cadere in ginocchio. Cominciai a singhiozzare, senza temere il mio volto di fronte ai vicini.
Più che derubato, mi sentivo tradito, dall’Alfetta che aveva deciso di andare con qualcun altro. E se nemmeno l’Arma riconosceva la sincerità delle mie lacrime, non serviva a niente continuare a dare spettacolo.
Fatto sta che non firmai la denuncia. Tanto, a quel punto, la voglia di fare qualsiasi cosa fuori dall’ordinario, mi era passata da un pezzo.
A Emily invece no. Le idee le venivano tante quante le gocce di pioggia che ora mi martellavano sulla testa e sull’asfalto. Sembrava non le importasse nulla del mio stato d’animo. D’altronde, l’avevo assecondata in ogni modo, senza pretendere nemmeno una sua qualche spiegazione riguardo al suo accanimento. Credeva avessi solo voglia di qualcosa di diverso in una quotidianità che non mi dava proprio niente. E io non mi ero preso la briga di spiegarmi.
Ma ora che i soldi sostanzialmente cominciavano a finire, non mi sembrava più il tempo di perdere tempo.
Anche questo, Emily lo sapeva. Se n’era accorta dal mio modo di cambiare le marce, sulla pigrizia delle doppiette, dalla maniera di non accompagnarla nelle biblioteche. Ogni cosa cominciava a darmi fastidio, persino quel suo modo di volermi distrarre. Ma non capendo che non mi aiutava affatto, per conto suo, andava avanti. Ma dove?
Partendo dalla morte del Turri, aveva cominciato a studiare i piccioni. Aveva letto che davvero erano tra gli animali più evoluti della propria specie, avvalorando l’articolo e le tesi del giornalista. Eravamo tornati in Sormani e aveva letto l’articolo dieci, cento, mille volte. Pensava che ci fosse sfuggito qualcosa, un minimo particolare, che costituiva la chiave di svolta della vicenda.
E invece, niente. Avevamo dopo un mese le stesse informazioni che avevo io la prima volta.
E di giri così, a vuoto, ne avevamo fatti mille. Negli uffici comunali, per capire gli spostamenti, ma il signor Anselmo risultava essere sempre stato residente lì. Niente. Al catasto, per capire i cambiamenti interni dell’appartamento, eventuali ristrutturazioni o cose simili. Niente. Persino alla società dei telefoni, per trovare un minimo spiraglio. Niente. Eravamo tornati all’appartamento dei signor Anselmo. L’avevamo ricostruito, grazie alle foto che aveva fatto Emily perfettamente. In ogni minimo particolare. E l’avevamo sviscerato in ogni più nascosto angolo. Mi chiedevo se stessimo cercando realmente qualcosa o se lavorassi part time per un’impresa di pulizie. Niente.
Ma le cose, se devono andare in un certo modo, continuano ad andare in quel certo modo. Noi avevamo girato per giorni e giorni senza cavare un ragno da un buco, anzi. Al catasto, tra carte e scartoffie, a casa, tra pentole e poltrone, ovunque insomma, di ragni ne avevamo trovati fin troppi. Ma solo quelli, niente di utile. Era stata la goccia e il vaso.
E così, anziché a quell’attività becera, mi ero dedicato al tabagismo a tempo pieno.
In macchina non si fumava, ma appena fuori, le natiche appoggiate alla lamiera, accendino e sigaretta. E Emily andava, entrava, leggeva, faceva. E io fuori a spipazzare. Placido e rassegnato come un coccodrillo.
E ogni volta che usciva da qualsiasi posto, in silenzio, i passi in quattro quarti, entrava in macchina, aspettava che finissi, se stavo finendo, e diceva: “Niente”, scuotendo il capo.
Dopo un po’, nemmeno l’andai più a prendere. Veniva lei da me, a scuotermi. Un caffé insieme e poi si usciva. E ancora una giornata, fino a sera, a fumare sigarette e a sentirmi dire: “Niente”, mentre scuoteva il capo.
E va be’. E poi, al buio, nella mia cucina che puzzava di chiuso e colazioni, da quanto ci stavo, si faceva il riassunto. Sempre allo stesso modo, con quei soli quattro elementi da poveri che avevamo.
E se nemmeno quattro indizi fanno una prova, figurarsi quattro elementi.
Un tuono suonò dietro le finestre. Il citofono trillò come un trapano, ma non mi mossi di un centimetro.

venerdì 4 aprile 2008

Quindici

Nel capitolo precedente: le cose scivolano così.
Uno fa un passo alla volta. Poi sembra che non serva a niente.
Prendi loro. Vanno, fanno, disfano.
E sembra anche che non serva a nulla.
Ma poi magari a qualcosa serve.
A qualcosa serve sempre.
Questo lo sanno tutti.
Ma a cosa, purtroppo, non lo sa nessuno.


La luce della televisione illuminava la stanza in maniera intermittente. Se non avesse avuto l’audio, sarebbe stata una degna alternativa a un abatjour.
Emily non ne aveva voluto sapere di andare via, e mi aveva seguito lungo le scale dei box, in casa, fino in cucina. Non capivo a fondo il suo comportamento, ma i suoi passi in quattro quarti, in effetti, non mi dispiacevano affatto.
Tolsi il volume alla televisione, e mi sedetti al tavolo. Lei di fronte a me.
Non sapevo se il mio viso era messo in ombra dalla sua testa, ma restava il fatto che io, negli occhi, non riuscivo a vederla. La luce dello schermo, alle sue spalle, le evidenziava il perimetro dei capelli, come fosse un’aura moderna. O la vecchia pubblicità dell’AIDS.
Mentre pensavo a queste cose, lei, come se a casa mia ci fosse già stata, prese i bicchieri dalle ante sopra il lavello e la bottiglia di vino dallo sgabuzzino. Ondeggiava sulle anche quasi come una ballerina.
Era un vino della Valtellina, di quelli buoni che sempre provengono da uve di Nebbiolo. Non potevo esimermi dalla constatazione che era uno dei miei preferiti.
“Ma come facevi a saperlo?” le domandai.
“Tutti, in tutte le case, hanno dei bicchieri sopra il lavello e il vino, lo tengono nello sgabuzzino e nelle ante in fondo in cucina. A meno che non sia a vista, d’accordo. Come le posate. Sono sempre nel primo cassetto. Facile, no?”
In effetti aveva ragione. Ci sono particolari che rientrano nel codice genetico delle persone.
Per i francesi la R uvulare, per i tedeschi la durezza e rigidità, per le svedesi la bellezza, per i cinesi il riso. Non si scappa.
Fatto sta che, seduti uno di fronte all’altra, i pensieri ci imbrigliavano quasi fossero fango. Non riuscivo a fermarne nemmeno uno, come se in realtà non pensassi, e probabilmente per Emily era lo stesso. Negli appartamenti accanto al mio, si sentiva la vita sfilare indifferente ai miei bisogni. I rumori di piatti e di televisioni annunciavano la cena, insieme al vociare sommesso sulla giornata appena trascorsa, che non avevo mai capito. Quando i miei genitori si raccontavano in maniera più o meno concitata ciò che era loro successo, da bambino sciocco mi ci arrabbiavo. Non capivo che senso avesse condividere una giornata normale, proprio per loro che, in condivisione, oramai avevano già tanto tempo.
Eppure, quella sera con Emily di fronte, ne sentii il bisogno.
E fui pronto per sfiorarle una mano, la allungai lentamente con fare distratto e sentivo il sangue che cominciava a scorrere velocemente nelle vene. La muscolatura delle falangi sembrava gonfiarsi e inibire i movimenti, come quando le braccia diventano di legno dopo aver fatto uno sforzo da portuali. Potevo quasi sentire il contatto, potevo immaginare di sfiorarla, quando iniziò a parlare. E tutto si ruppe. Rilassai i muscoli tesi e inspirai.
“Sentiamo”, dissi scontento.
A lei non tornavano i conti. Si lamentava del mio procedere a tentoni. Che cosa pretendeva. Mica ero un investigatore privato. E poi chi ha detto che procedevamo in modo sbagliato, dal momento che c’è un modo giusto o sbagliato di procedere se, per procedere, si ha un punto verso cui procedere.
“Perché se questo punto non c’è, mi dici che senso ha, cara?” mi stavo stizzendo ed ero acido. In primis, perché non sopportavo le critiche. Secondo, perché avevo altre intenzioni. Infine, perché se uno si mette nei casini, deve sbrigarsela da solo. E poi volevo fare altro, ecco.
Ma nonostante il mio malumore, continuò.
“Anche se è morto?”
“Anche se è morto. Poteva pensarci prima.”
“Sì. Pensarci prima a morire”
“No. Pensarci prima e basta. Prima di mettersi nei casini. La morte, alla fine, è sempre dietro l’angolo. Per questo uno deve sempre seguire la massima di Confucio:” le risposi trionfale citando il signor Anselmo, “fatti i cazzi tuoi”.
L’avevo stesa ed era chiaro. Ma anziché sentirmi un piccolo Cesare, mi sentivo un piccolo imbecille.
Forse perché l’avevo ferita.
Ma non importava, ci sono situazioni in cui tutto è lecito. Soprattutto quando lo scambio è uno a uno: o io o lei. E in quel caso, in ogni caso, era meglio io.
Però restava un fondo di vero, nell’affermazione di Emily. E forse per recuperare, forse perché anche io ne ero convinto, glielo dissi.
“In effetti, le cose non tornano. La lettera per il Turri che aveva scritto a me. E il Turri era morto una decina di anni prima. E il signor Anselmo non poteva non saperlo, se poi sulla tomba c’era un signor Nessuno che mi aspettava. Bo.” Conclusi. Bevvi il vino nel bicchiere d’un fiato, come fanno gli anziani dopo una mano di carte venuta male, nei circoli di bocce.
Emily invece sorseggiò. E leccandosi il labbro superiore, cominciò.
“Senti. Vediamola così. Mi hai detto dell’odore di caffé. E nemmeno con la Comare, la cosa non rientra. Allora quello può essere un punto. Punto che non rientra però con la casa. O non ci abitava in quella casa, o a te, ti ha mentito.
Nella lettera che ti ha spedito, ha detto che sarebbe partito per un lasso di tempo abbastanza ampio. Allora, ad esempio, perché l’affitto scade tra sei mesi e non subito?”
Come è strano notare che, quando le discussioni si fanno più focose e le distanze diventano maggiori, anche il linguaggio cambia. e diventa più forbito.
“Sì, magari è un’idea. Ma magari ci sono anche delle difficoltà contrattuali, che ne sai. O forse, la sua idea di tanto tempo può essere anche un mese. O forse non voleva perdere la casa. Che ne sai. Certo non aveva calcolato di morire!”
“Può essere, va bene. Ma come ti spieghi il Turri. Voleva che venissimo a conoscenza della sua morte, della tipologia più che altro, no?” e, mentre mi spuntava un sorriso sopra i denti, Emily si irrigidì fino a gelarmi con gli occhi. Abbassai la testa e, se avessi potuto, avrei abbassato anche le orecchie sugli occhi. Finsi che invece non mi era capitato niente, cercando le sigarette in tasca. Ottima trovata, per recuperare la mia posizione.
Spesso con Emily mi sentivo così. Un giocatore fuori ruolo alla mercè dei cronisti. E quelli dei lei erano gli occhi dell’allenatore che ti rimproverano e allo stesso tempo ti spronano. Una cicatrice che poi, per forse tutto il campionato, tra l’orecchio e l’angolo della bocca, con quanti punti di sutura vuoi, non sarà mai del tutto rimarginata. Sbadigliai.
“Probabilmente, volevano che arrivassi fin lì, idiota. Non ci hai pensato?” mi rimbrottò.
Il tabacco e la carta cominciarono a bruciare sfrigolando.
“Probabile. Non sapevo di questo tuo fiuto, però. Allora adesso dobbiamo aspettare che qualcuno o qualcosa ci dica che fare, semplicemente.”
“No. Cerchiamo di capire il tuo odore di caffé.”
“Ma da dove partiamo, capa?” un po’ mi stavo cominciando a divertire. Anche se le redini dovevano tornare in mano mia. Il signor Anselmo conosceva me, non lei. Aveva lasciato tutto a me, non a lei. Aveva spedito la lettera a me, non a lei. Glielo feci presente.
“Chiaro. Allora arrangiati. Io vado a casa. Fattelo da solo” disse mentre le gambe della sedia cominciarono a trascinarsi sulle piastrelle del pavimento.
“No, no, aspetta. Ok, facciamo insieme” e lei si rimise a sedere, respirando paziente come una mamma.
“Ancora una cosa, Emily. Perché mi ha detto di prendermi cura di te, se non vi siete mai conosciuti?”, le chiesi con il dubbio venuto fuori come un singhiozzo.
“Senti. Io non lo conoscevo. Però anche a te ha detto che ti trovava bene, anche se un po’ dimagrito. Evidentemente ti osservava e, se osservava te, avrò visto anche me. Non ti pare?”
Mi aveva battuto. Anzi, mi aveva proprio fregato. E nel suo volto contratto si notava chiaramente che aspettava una mia risposta che confermasse la sconfitta.
Con un cenno di assenso gliela concessi. Ma pensai che lì dentro ero io l’uomo, cercando il qualche modo di pareggiare la partita. E poi io giocavo in casa. E non contava niente che i gol fuori casa valessero doppio. In questa competizione, per lo meno, non importava.
“Va bene, dai. Vuoi una sigaretta?” dissi. Se non avessi avuto l’ultima battuta, quella di chiusura del discorso, sarei andato troppo giù. Dovevo ripreparare la piana di contesa.
Però, me ne rendevo conto, questo gioco cominciava a piacermi. O forse mi piaceva stare con lei.
“E domani allora andiamo a prendere la Cinquecento. Dobbiamo cominciare a pensare come il signor Anselmo. L’ho visto nei film”, dissi fiero di una mia conclusione, spegnendo il mozzicone nel posacenere. Non ci riuscii del tutto. Un filo di fumo si alzava ancora. Mi alzai e vi misi dentro un po’ d’acqua. Avevo sempre avuto paura dei fuochi.
Emily scosse la testa come a dire no, ma non lo disse. Avevo proprio voglia di andare in giro con quella scatolina bianca.
Lei, fu chiaro, capì il mio pensiero.
“Togliti quel sorriso dalle labbra. Sembri uno stupido”. Sorrise, come solo in certi momenti si sorride. Allungai il dito a sfiorarle il labbro inferiore, come se così facendo potessi rapire un po’ di quella bellezza ingenua. Il lampadario rifletteva l’ombra del mio braccio sul tavolo, il calore del respiro che le usciva dal naso mi sfiorava il dorso della mano. Non mi vennero in mente né il bue né l’asinello, ma quel vago odore di marsiglia che si alzava nella cucina mi scuoteva alla bocca dello stomaco.
Nella testa e davanti agli occhi mi scorrevano veloci le immagini degli ultimi giorni. Quel finto enigma cui non sapevamo rispondere, quell’inchiesta da poveri in cui c’eravamo imbarcati più con curiosità che con istinto poliziesco e le mani di Emily che si agitavano lente nel suo modo di parlare.
La mascella si mosse e si contrasse nel desiderio di baciarla. Stava cambiando qualcosa, tra noi e intorno a noi.
Forse, davvero, eravamo vicini a qualcosa.