giovedì 24 gennaio 2008

Sette

Nel capitolo precedente: io lo sapevo che poi il vecchio moriva. I vecchi muoiono tutti. Prima o poi. Ci si deve preparare. Ma lui, per me, non era pronto. Lo so.
Soprattutto se poi uno si ritrova a parlare con uno sconosciuto in un bar. Di notte. Da solo.
Certo, figurati se non moriva.
E anche i dubbi. Hai voglia a parlare di dubbi. Uno muore e basta. E se hai duecento anni, è il ciclo della vita.
Mica è omicidio. Non ha senso fasciarsi la testa.
E poi gli è già andata di culo che gli ha lasciato la 500.
Deve farsi due sbatti, pulire e buttare via un po' di roba, certo.
Ma tanto, mica è solo. C'è Emily.

Che poi. Tra un po' mi dice che si sono pure innamorati... teneri.



Emily mi seguiva con lo sguardo preparare caffé e bicchieri di Coca Cola per le sue colleghe. Cominciavo ad essere saturo di quei gesti, non rivolgevo la parola più a nessuno. Mi sentivo immerso in una rete che nemmeno i pescatori potevano immaginare. D’altronde, la pesca a strascico era vietata.
I clienti sfilavano come passanti su un marciapiede. Anonimi come poche ombre sanno essere, ma come è giusto che quelli che vanno con le puttane siano. Non riuscivo a distogliermi dall’idea che il signor Anselmo fosse stato ucciso. Non ne avevo parlato più di tanto con Emily, visto che lei era convinta di una cosa ben precisa, ma io ero piuttosto scettico.
Che cazzo, mi dicevo. Già i vecchi non interessano a nessuno. Il governatore di una banca, ucciderlo avrebbe un minimo di peso. Ma un barista, che per giunta lavorava in un locale ad ore, che senso ha. Come schiacciare una formica in un formicaio. Figurati se ti cambia la vita.
E nemmeno i ladri, non era stato trafugato niente. Dovevo accettare la realtà. Sono cose che succedono, ai vecchi.
La vetrina si appannava, cominciava a fare freddo. Quelli che vendevano le caldarroste si accalcavano lungo i marciapiedi del centro e i passanti, delle loro caldarroste, non sapevano che farsene. Faceva freddo, e piuttosto la grappa. Almeno, il calore, avevi la minima idea di percepirlo. Lo avevano capito i montanari, perché non li avevano imitati, i milanesi?
Come al solito nel bar, un tizio che lavorava lì vicino, ci portò i panini. Noi li facevamo, certo, ma solo per i clienti. Era necessaria roba che ridesse la carica, mica i condimenti leggeri che volevano le signorine. Pomodoro e mozzarella, bresaola e rucola contro speck e brie, cotoletta alla milanese e fontina. Dovevano tenersi in forma, loro, nonostante non fossero soubrette, anzi. Certo, entrambe con il corpo ci lavoravano, ma qui anche il corpo lavorava con loro. Quindi un minimo di ritegno, ci voleva. Un do ut des in piena regola.
Uscii, mi sentivo a disagio tra morsi strappati e mascelle contratte. L’Alfetta sembrava sorridesse, con i fari tondi e lo scudetto che pareva in naso, il colore giallo perfettamente intonato alle strisce del parcheggio riservato ai portatori di handicap. In certe cose, lo stile si nota, pensai.
L’inverno si faceva strada a larghi passi e, mentre fumavo, le dita mi si irrigidirono. Fino a diventare quasi viola, ma le osservavo senza nasconderle nel calore nemmeno un po’. Una sigaretta all’aperto è sempre un’altra cosa.
Forse, più probabilmente, volevo solo evitare lo sguardo di Emily. Non avevo la minima voglia di intricarmi in difficili scambi di battute sul signor Anselmo. Lei sicuramente mi avrebbe fatto altre domande, mentre l’unica cosa che poteva interessarmi erano le forme antiche della ‘nipote’ del vecchio. Sbuffai fuori l’ultimo tiro e con lo sguardo attraversai la strada. Cominciavano a cadere le prime gocce di pioggia davanti ai fanali accesi delle auto che scorrevano silenziose nelle due corsie a senso alternato. Si piegavano sotto i coni di luce come fili d’erba in un prato. Ripensai all’ultimo giorno del signor Anselmo e di come poi le cose fossero cambiate.
Vidi il bar di fronte e la cassiera seduta alla cassa. Guardava il calendario e forse avrebbe potuto darmi una mano. Almeno spiegarmi la storia del caffé.


Non avrei mai saputo come convincerla se non fosse stato per Lo Bianco, un appuntato dei Carabinieri che ogni tanto chiedeva del vino bianco al bancone. Magari passava per una sbirciatina, ma quando chiedeva una spruzzata di Campari sapevamo entrambi a cosa si riferiva. E una signorina, allora, doveva sacrificarsi. Una marchetta per il quieto vivere, dicevano ai tavoli.
Mi doveva il favore di essergli complice agli occhi dell’Arma, non mi avrebbe negato l’onore di accompagnarlo dalla Comare. Avevo cominciato a chiamare così la signora di cui il signor Anselmo si era innamorato, perché mi sembrava una persona di famiglia ma dalla quale dubitare. Non perché ce ne fosse il motivo, certo, ma perché per colpa sua il signor Anselmo era stato male.
Non discutevo sulle ragioni, ognuno avrà avuto le sue, ma in quel caso giustificavo persino il tifoso più violento. Quindi, sempre e comunque dalla mia parte.
Fatto sta che Lo Bianco mi aiutò volentieri. A patto che i prossimi due Campari spruzzati li offrissi io. Aveva un ghigno da faina sul volto, e una mano in tasca a giocare con una sigaretta. Come se già pregustasse il momento successivo alla riscossione.
Volgare, cazzo, mi venne da pensare.
La signora, o ancora signorina più probabilmente, non risparmiò parole. Appena vide la divisa, si lasciò andare in confidenze che non avrebbe fatto nemmeno alle amiche.
Le caramelle vicino alla cassa abbondavano e, dal momento che mi sentivo forte di me più che mai, ne approfittai a iosa. Gratuitamente, ovvio. L’essere con un Carabiniere mi dava un’autorità non da poco.
Avevamo simulato la tipica situazione da poliziesco americano. Lui quello buono, che parla e che cerca di mettere a suo agio l’interrogato. Io quello cattivo, che gira attorno a entrambi e che sta zitto. Con uno sguardo che la metà basta. Ma dopo poco smisi. Anche perché, a stare con la faccia corrugata il più possibile, mi si stavano atrofizzando i muscoli del volto. Cominciavano a farmi male.
La sedia su cui lei era seduta, con noi due in piedi di fronte, aveva un lieve difetto sullo schienale. La pelle si stava staccando, forse per le troppe schiene cui vi si erano poggiate, forse per i troppi cowboy che l’avevano usata al contrario, sbocconcellandosi le unghie.
Ci disse tutto. Rispose a qualsiasi domanda, ma la maggior parte le faceva Lo Bianco ed erano perfettamente inutili. Aveva accumulato pettegolezzi sulla vita passata della donna e del quartiere, più che informazioni.
Fu alla fine che le chiesi del caffé macinato. Mi rispose che non ne sapeva niente, ma ora che ci pensava, le pareva di ricordare che era un odore che il signor Anselmo aveva spesso addosso. Però purtroppo non sapeva come giustificarlo.
“E poi io, il caffé, non l’ho mai potuto sopportare! Nemmeno l’odore! Ma l’amavo…”
E ci disse anche che, secondo lei, il signor Anselmo era sempre stato un gran bugiardo. Non proprio in questi termini.
“Piano con le parole” le intimai. Mi sentivo come uno cui insultano Bearzot dopo il Mondiale dell’86. Avevamo vinto quattro anni prima, dopo tutto. Non si poteva sputare nel piatto in cui si mangia. Inoltre, quello era il mondiale di Maradona e della mano di Dio. E contro Dio, nessuno avrebbe avuto una sola chance.
Però una cosa di importante era venuta fuori, tra i tavoli che sapevano di plastica e il pavimento che sembrava di finto pavè. Il signor Anselmo le nascondeva qualcosa. e anche a me.
“Facile così” dissi a Lo Bianco, mentre una Cinquecento bianca ci passava davanti. Non credevo che ce ne fossero ancora così tante, in giro. Magari, nei paesi dell’Est le producevano ancora.
“È come se io ti dicessi che, forse, uno di quei giovani seduti al parco prima o poi si fumerà una canna”
Lo Bianco fece un sorriso: “Limitati a fare il barista. Lo specialista sono io”.
“Certo”. Era fin troppo facile fare il giustiziere duro e puro, e farsi passare i caffé corretti gratis.
Anche se questo era ancora da vedere.
Era stato un buco nell’acqua. La Comare aveva sì parlato, ma solo dei suoi pianti e isterismi di anni e anni prima. Non aveva aggiunto nulla di più di quanto il signor Anselmo mi avesse detto già. Eccetto l’odore del caffé. Ma era una falla da poco conto.
Un grosso, enorme, noiosissimo buco nell’acqua. Con anche la piaga di Lo Bianco, per giunta.
E fu per questo che i giorni successivi furono giorni di fuoco. Se ne accorsero tutti. Restringevo anche i caffé ristretti. Ero nervoso e teso. Non mi si poteva dire niente. Neppure che Terence Hill era gay per ridere, e me la prendevo come se fosse una questione personale.
Emily mi guardava da lontano e, dai suoi occhi, vedevo che non mi riconosceva. Sembrava allibita. Una studentessa che guarda con aria attonita una sfuriata fuori luogo di un’insegnante.
Eppure mi aveva visto e conosciuto come una persona distaccata, tra i bicchieri che erano di grandezza diversa e i poster che non richiamavano nessun elemento dell’ambiente circostante.
Dove ero finito? Non lo sapevo e avevo cominciato a fumare tenendo la sigaretta tra i denti, come quei vecchi anarchici che hanno sulla pelle la strage di piazza Fontana.

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