giovedì 21 febbraio 2008

Undici

Nel capitolo precedente: va', guardalo. Lancia via la sigaretta come avesse detto chissà che verità.
E invece si è messo solo a fare quello che gli aveva detto di fare il vecchio. Prendere un minimo la situazione in mano, tenerla un minimo in pugno.
Sì, tanto in pugno che appena ha deciso di andare da solo dal Turri, con lui ci va anche Emily.
Bel pugno di cioccolato, che ha questo qui.
Butto via anche io il mozzicone, va.
Rientriamo.
Ché qui fuori fa veramente freddo e mica posso star qui a pettinare le bambole.


Giravano i numeri rossi sul contachilometri e osservavo le strade in ogni loro angolazione, giusto per cambiare, ma mi stavo cominciando a scocciare. Sempre con la stessa dinamica, le stesse posizioni, le mani attorno al volante. Emily guardava fuori con gli occhi spenti del piccione. Stringeva tra le mani la busta che dovevamo consegnare, ma solo Dio sa quanta voglia avrebbe avuto di aprirla. Lei, io no. Io sono uno che nelle cose ha sempre voluto starne fuori e non sapere niente. A meno che non fosse a livello di pettegolezzo, sia chiaro. Perché lì, allora, fa ridere. Mica come in queste storie, la fine delle quali non si vede mai.
Trovato il numero civico, sistemai la macchina al solito posto. Da quando ci facevo caso, avevo scoperto che gli handicappati sono molto ben distribuiti in città.
Il portiere era una persona di piccola statura. In divisa, manifestava quanto il palazzo volesse essere signorile e distinto, con marmi e vetri, ottoni e tappeti che, nonostante la pioggia, mascheravano in malo modo il fatto che fosse una delle tante cooperative fasulle. Cooperative sociali all’inizio, ma poi tutti pronti a guadagnarci qualche soldino.
Non avevo la più pallida idea nemmeno di come pormi. Non ero mai stato bravo a inventare balle nemmeno quando dovevo coprirmi con mia madre. Figurarsi adesso che la cosa era una semplice formalità.
Spacciandoci per dei figli di un lontano cugino, avevamo chiesto informazioni sul Turri. Geneticamente, si sa, i portinai sono inclini alla chiacchiera. Soprattutto quelli dei palazzi bene, che sono saturi di informazioni su una certa fetta di società e non sanno nemmeno loro come fanno a trattenersi.
Si pizzicava i baffi, nell’angolo di destra, contento di trovarsi ad essere il protagonista di un dramma non cercato. Parlava con un accento pugliese, con quelle inflessioni dialettofone che per molti restano solo suoni molto aperti, ma senza un significato.
Però capimmo tutto. Dai quattro “che c’amma fa’?” fino ai più difficili giri di parole per dirci che il nostro Turri Alessandro era morto in un incidente d’auto circa quindici anni prima. Un colpo di sonno, un malessere, non ricordava. Parlava come un verbale redatto dalla stradale, come se anziché saperlo per passaparola, fosse venuto a conoscenza dei dettagli direttamente dai documenti.
E allora, rifacemmo tutta la circonvallazione, con i suoi saliscendi. Fino alla svolta in viale Certosa, con i suoi alberi e i suoi semafori, fino a Musocco.
Emily prese la lettera dal cruscotto, batteva i piedi sul pavimento dell’auto nervosamente. Ero consapevole del non perfetto funzionamento dell’impianto di riscaldamento, e i piedi le si stavano congelando. La capivo. Però era molto più facile comprendere le differenze tecnologiche che crescono in trent’anni, da parte sua. Poteva anche smettere. Non tanto per il rumore, quanto perché temevo danni irreversibili per il pianale stesso.
Tuttavia, non mi sembrava il caso di farglielo notare. Così come non mi sembrava nemmeno il caso di andare in un cimitero, soprattutto in inverno, col cielo che si perde nell’asfalto, così come i tramonti si affogano nel mare e non se ne distingue il limitare.
Ma se al mare, un effetto ottico del genere può essere costellato di mille, piacevoli e romantici aggettivi, in città diventa quasi macabro. Prescindendo poi dalla folle idea di cercare la tomba del Turri e leggere alla lapide la lettera del vecchio amico morto. Se lei voleva farlo, per semplice influenza cinematografica o per chissà quale motivo morale, io non l’avrei seguita.
Stavo in macchina, il motore spento e gli aghi del tachimetro in posizione di riposo, entrambi, e fumavo lasciando appena aperto il deflettore. Guardavo il cancello d’ingresso e le strade che si riempivano sempre più di luci e di lamiere. Stavano arrivando di corsa le sei, gli uffici avevano già chiuso, e gli ultimi ritardatari si stavano affrettando a finire ciò che era rimasto. Come fosse una merenda obbligatoria per tornare a giocare a pallone con gli amici.
Emily ci stava mettendo un sacco di tempo. Ero stato seduto troppo tempo. Mi stavano venendo le piaghe da decubito. Forse sarebbe stato meglio uscire, giusto per stendere le gambe.
Appoggiato alla lamiera, immediatamente fui affiancato da un poveraccio che chiedeva l’elemosina. Spostando verso di me le dita ormai blu, sibilò appena la richiesta di una sigaretta. Come unica fonte di riscaldamento non c’è male, pensai.
Accese, appoggiò a sua volta la schiena sull’Alfa.
“Cercate anche voi il Turri?” domandò dopo una prima boccata.
“E lei come fa a saperlo?”
Strinse il filtro forte tra le labbra, fino a schiacciarlo. Era un gesto che ricollegavo allo stadio, alle tifoserie delle squadre che stanno per perdere una coppa.
“Ho sentito la sua donna chiederlo in guardiola”
“E allora? Si mette ad origliare? E poi non è la mia donna”
“Cambia poco. Sono anni che sto qui al Maggiore, e mi chiedo come mai solo adesso ci sia gente che chiede del Turri. In tanti anni, nemmeno un fiore…”
“Magari ci siamo ricordati di lui solo adesso”. Mi stavo innervosendo, ero acido.
“Voi due, forse. Ma i tipi che sono venuti un mesetto fa erano poliziotti”, mi rispose come se nulla fosse. Aveva finito la sigaretta, stava lanciando via il filtro, con un gesto di chi lo sa far volare lontano. Gli afferrai il braccio, e il mozzicone mi cadde quasi sui pantaloni. Per poco non avrei rischiato di prendere fuoco.
“Adesso mi dice che cosa sa. Chi era il Turri, come è morto eccetera.”
“Facile, così. Io non mangio, figuriamoci se parlo.”
“Ok, adesso ce ne andiamo a cena e vediamo se riesce a trovare qualche briciolo di forza per parlare.”
Lo feci sedere davanti, accanto a me. Emily era tornata con la busta ancora in mano, il volto con due righe che scendevano dagli occhi fino alla mandibola. Aveva pianto, ma non volevo sapere il perché. Se me lo avesse detto, bene. Altrimenti, ciccia. Robe da donne che a stento avrei capito.
Adesso c’erano ben altre cose di cui occuparsi. Avevo trovato una pista e non me la sarei lasciata scappare per nessun motivo al mondo.
A pochi passi dall’auto, notò che al suo posto c’era questo tizio. Il suo sguardo fu abbastanza loquace. Mi restituì la lettera, che riposi nuovamente nel porta documenti dell’Alfa.
“Stai dietro e controlla questo qui mentre guido. Andiamo a cena, poi ti spiego”, le dissi da finestrino aperto, allungando fuori la testa dal guscio di tartaruga di lamiera.
Le porsi anche un fazzoletto di carta. Non mi sembrava decoroso che si mostrasse tanto vulnerabile.
Sarebbe stato faticoso. Molto.

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