venerdì 21 marzo 2008

Quattordici

Nel capitolo precedente: be', mi sembra che siano arrivati a buon punto, no?
Lui che scopre praticamente niente. E quel tizio chi è? Boh.
Solo che poi c'è un altro tizio che ti dice di andare a vedere un giornale. Mah, sarà.
Sarà che questi due mi sembrano due scemi.
E lei che sembra che un po' alla volta... ma sì, ma sì.
Questi due, va a finire che limonano.


Girai la macchina verso via Larga, dopo un semaforo mischiato con quei palazzoni a specchio che nascondono gli impiegati. Procedevo a sbalzi, senza più dire una parola. Emily probabilmente pensava che fossi rimasto scosso dalla sua azione reazionaria di bucarmi la macchina, ma non era quello il motivo. Era chiaro però, da come muoveva le mani, intrecciate come mozzarelle, che iniziava in lei a muoversi il senso di colpa.
Fu a metà di via Larga, dopo un negozio che vendeva divise e ammennicoli militari, che staccai male la frizione e spensi la macchina allo scattare del verde. Fui sorpreso quanto lei di quel gesto.
Non mi era mai successo. Ed entrambi sapevamo bene quanto ciò potesse danneggiare valvole e pistoni. Senza calcolare i dischi della frizione che si erano chiusi di scatto.
Ma anziché maledirmi, scoppiai a ridere. Di un riso che mi obbligò a fermare la macchina davanti alla fermata di un autobus, senza curarmi come era ovvio del divieto di sosta e di fermata. L’autobus sarebbe arrivato comunque, si sarebbe fermato in mezzo alla carreggiata e l’indifferenza dei passeggeri avrebbe svolto ugualmente il suo ruolo. E quando questo successe, mi sentii circondato da milioni di formiche che svincolano l’ostacolo.
La preoccupazione di Emily fu evidente quando iniziò a mangiarsi le unghie. La cura che dedicava alle sue mani non bastava alle sindromi nervose. Però bastava a sgelare la situazione e a cominciare il discorso sul Turri. Quanto a strategie di difesa, ero un vero mago.
“Un attimo, adesso te lo dico” mentre già le lacrime mi scendevano, superati gli zigomi, facendo lo slalom tra i peli di barba.
“Ho trovato l’articolo che parla del Turri”, dissi tra i singhiozzi ottusi che il fiato interrotto mi provocava.
E le dissi tutto. In un intervallo variabile tra i due minuti e la mezz’ora. Non riuscivo più a trattenermi.
“Poveraccio”, fu il suo commento dopo aver saputo dei piccioni. D’altra parte i giornalisti ci vanno a nozze con storie del genere. Il gusto del macabro ha sempre fatto buon gioco al successo di un articolo, e non importava l’impostazione di partito o liberale del giornale, in questi casi. E il fatto che il Turri stesse percorrendo i Navigli con la sua 127 non dava meno colore al pezzo.
Ma era a questo punto la cosa più divertente. Sembrava si volesse descrivere una nota caratteristica della città meneghina, la quantità di piccioni presenti nel centro di Milano aveva affascinato da sempre i turisti. Ma che i piccioni stessi, da animali innocui e sufficientemente stupidi, si trasformassero in arma di morte e distruzione, non era mai stato nemmeno considerato. Invece, questa volta si erano ribellati. Non si sa se contro il rumoroso motore delle macchine degli anni ’70, o se contro uno sgarbo subito nella propria zona, come nei grandi film di gangster ormai andati. Restava il fatto, ben descritto nell’articolo, che uno stormo di piccioni –ma poi, i piccioni si spostano a stormi?- aveva attaccato la macchina del povero Turri. Ma non solo. Il primo dei suddetti volatili gli aveva addirittura rotto il finestrino, lasciando su uno spuntone le penne, mentre un secondo, che lo seguiva a ruota, gli si era ficcato con il becco nella tempia.
A questo punto, il Turri era uscito fuori di strada, “per lo spavento” aveva detto la Polizia, “già morto” diceva il giornale, ed era finito nel Naviglio Grande. Se fosse morto affogato o se fosse stato ucciso dai piccioni non era ancora chiaro. Segnale più che manifesto, invece, erano le cagate di piccione rimaste sulla zona, fatto inquietante e inconcepibile. Come se i piccioni volessero comunicare ai civili che dovevano lasciare a loro la zona.
E non finiva qui. Il giornalista, giunto sul posto prima dell’Arma, si lasciava andare in disquisizioni pseudo scientifiche, e aggiungeva che i piccioni, uno dei volatili più evoluti della loro specie, i corvidi, anticamente cacciavano e uccidevano proprio grazie al becco. E ancora, che il movimento altalenante della testa, avanti e indietro, era un retaggio del passato: infatti, proprio questo congegno a molla del collo, permetteva loro di attutire l’impatto e di restarci secchi. In questa maniera, quindi, era stato ucciso il Turri.
“Divertente, no?” dissi, senza riuscire a fermarmi.
No, per lei non era divertente. Con gli occhi spalancati e le mani rapprese, Emily era sconvolta.
Non credevo che la mia capacità narrativa fosse tanto poco coinvolgente. E più la cosa a me faceva ridere, e più Emily mi guardava spalancando gli occhi. Ad un certo punto mi fermai, temendo forse che i bulbi le uscissero dalle orbite.
“Cosa c’è”, le chiesi. Non mi sembrava tanto assurdo ridere di una morte improbabile. Forse perché non era un mio parente, ovvio, ma non mi sembrava tanto assurda. Come quella del veterinario che doveva liberare una mucca costipata. Ma fumava e, col peto atomico della mucca, aveva preso fuoco. Certe storie metropolitane già fanno ridere in quanto leggende, figurarsi se diventano realtà.
Ma lei non era d’accordo. Lo considerava sciocco e di cattivo gusto. E poi c’era morta una persona che, seppure non conoscevo direttamente, era pur sempre un amico del signor Anselmo.
“Argomentazione fiacca”, le risposi indispettito. Non è possibile che ad una persona, che di gusto già non ride mai, le si taglino le gambe di netto una volta che si diverte, che cazzo.
Basta. Mi era stata rovinata la giornata. Sarei rimasto di cattivo umore fino a sera.
Riaccesi la macchina che, unica soddisfazione, partì al primo colpo. Misi la freccia, la prima, con l’intenzione di portarla a casa, metterla a riposo nel box e bere un bicchiere di vino. Che Emily si arrangiasse. Per quanto mi riguardava, poteva anche tornarsene a piedi.

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