giovedì 29 novembre 2007

UNO

Nel prologo: ho incontrato un tizio mentre aspettavo il tram. Non sembra uno di cui diffidare. Certo, non è nemmeno uno cui darei tutti i miei soldi, ma sembra un povero cristo come ce ne son tanti. Dice di essere appena tornato a Milano dopo tanto tempo. E mi ha invitato a bere un bicchiere insieme. Si vede che ha voglia di quattro chiacchiere. Deve essere un uomo solo, fondamentalmente. Lo ascolto. Perché no.
Bene. Adesso inizia.




Come tutte le mattine, la sveglia suonò due minuti prima del radiogiornale delle 8. Appena il tempo per tirarmi su dal letto, per rendermi conto di chi fossi, e poi spazio all'informazione. Amavo quel modo di capire il mondo, senza critiche o opinioni.
Se dovevo rovinarmi la giornata, volevo farlo in modo oggettivo.
Quindi mi alzavo e mi preparavo. Sempre nella solita maniera. I ritmi erano dettati dallo scadere delle lancette, minuto per minuto. Otto minuti seduto sulla tazza, quattro o cinque pagine di un libro, dieci minuti per fare colazione, due dei quali per fare uscire il caffé. Sapevo bene che la fiamma avrebbe dovuto essere al minimo per una migliore riuscita della bevanda, ma il tempo scarseggiava. Quello, era un vezzo della domenica.
Dopo una buona sciacquata generica e un paio di spruzzate di deodorante sotto ciascuna ascella, salivo in macchina per andare al lavoro.
Avevo un box proprio sotto casa, che ogni mattina aprivo con il più grande piacere. Mi godevo la vista della Vespa parcheggiata sul fondo, che ormai era ferma da tantissimi anni, e il culo a fanali quadrati della vecchia Alfetta gialla immediatamente davanti a me. All'inizio la parcheggiavo in retromarcia, in modo tale da avere il muso aggressivo in faccia, per cercare di raddrizzare in qualche maniera la giornata. Poi ho visto che il tubo di scappamento anneriva il muro e lo scooter.
Mi pianse il cuore, ma cambiai abitudine.
La Vespa, l’avevo comprata con i primi guadagni dei lavoretti estivi. Pensavo di desiderarla come non mai, ma il freddo e la pioggia ebbero la meglio e, giorno dopo giorno, la usai sempre meno. Fino a quando non venne più pagata l’assicurazione e lo scooter fu lasciato alla polvere del box.
La macchina invece, l'avevo ereditata da mio padre. L'aveva amata come poche altre cose nella sua vita, dalla primavera del 75 in poi, quando l'aveva comprata per quasi tre milioni e mezzo di lire.
Ma ad un certo punto gli occhi non gli permettevano più di guidare.
"Te l'affido" mi disse un giorno a pranzo, e mise le chiavi sotto il piatto guardandole da dietro le lenti spesse, vere responsabili di quel gesto. L'aveva lavata in maniera minuziosa, nevrotica quasi.
Per l’ultima volta. Con lo stuzzicadenti, aveva persino ripassato la croce e il biscione dello scudetto. Perché risaltino e i colori non si rovinino.
Quando ero bambino, e la macchina era la stessa, la domenica mattina venivo svegliato dal modo in cui la lucidava. Se il panno sulla lamiera non faceva lo stesso suono che il pollice di mia madre faceva passando sui piatti, allora non era contento. Allora non si lavava bene. Ma lavare una pirofila è un conto. Lavare una macchina di quattro metri è un altro paio di maniche.
Però ormai era un veicolo di interesse storico ed il fatto che fosse stata la macchina di mio padre mi inorgogliva non poco. Ma non tanto per il fatto che fosse stata di mio padre, quanto perché era perfetta in ogni suo particolare.
La gente era affascinata dalla storia di una passione che si tramanda di genitore in figlio, anche se non era vero niente. Perché la gente vuole sentire delle belle favole, e io non mi sentivo proprio tanto presuntuoso da negargli questo piacere da poveri. Mi piaceva gonfiarmi come un pesce palla.
Mi ero addirittura iscritto in uno dei club di auto storiche per potermi semplicemente pavoneggiare. Era un'auto talmente trattata bene, che pareva nuova. E come lo sapevo io, lo sapevano gli altri.

Vestito di tutto punto, dopo qualche decina di minuti dietro a fanali rossi di altre automobili in fila dietro segnali rossi di altri semafori in fila, sistemavo la macchina sul parcheggio riservato agli handicappati ed entravo. Il bar mi accoglieva sempre con un sorriso, il mio, riflesso sullo scaffale a specchio degli alcolici, tra il bancone e le signorine sedute lungo i tavolini del fondo.
Il locale sembrava un grande alambicco, stretto e lungo sul collo e con una pancia enorme in basso. Alla bocca c'era l'ingresso, lungo i due lati stretti c'era da un lato il bancone, dall'altro quattro tavolini con due sedie ciascuno. Attaccate lungo le pareti, le locandine di tre film che non mi piacevano ma ogni volta mi facevano sorridere: Tomas Millian su tutti, seguito a ruota da Shining e da Io sto con gli ippopotami. Non conoscevo bene il proprietario e mio principale, ma quanto a gusti cinematografici non doveva essere una cima.
Iniziavo alle nove, anche se non dovevo timbrare il cartellino. Il locale era già aperto, sembrava non dovesse chiudere mai.
D'altra parte, il signor Anselmo lo diceva sempre: "Non c'è un'ora sbagliata per scopare".
Come dargli torto.
Era stato lui a guidarmi dal mondo dell'Università, pieno di buchi come il cervello di chi è affetto dalla BSE, a quello del lavoro. C'era lui al colloquio col principale e alla firma del contratto. E c'era sempre lui ad ascoltarmi, quando non mi rendevo conto di come una striscia di inchiostro variamente orientata mi avesse garantito uno stipendio. E ancora, sempre lui mi aveva spiegato come funzionano le cose in un bar di un albergo ad ore.
"Con servizio in camera" diceva sorridendo, quando parlava delle signorine che aspettavano i clienti tra caffé e amari.
Arrivavo che la radio era già accesa. Avevo mutuato da lui l'abitudine al radio giornale. Solo la notizia, scarna e bruta. Era sia il gusto della velocità sia il gusto dell'oggettività. A me restava il compito di capire e aggiornarmi costantemente. Tanto più che sapere le cose dettagliatamente, prima e meglio di tutti, era sempre stato un mio vezzo. Al liceo, mi segnavo i passaggi principali dei libri che ci davano da leggere, divisi per capitolo. In maniera tale da poter recuperare immediatamente il punto e poter replicare all'insegnante con le stesse parole dell'autore. Una malattia, è ovvio.
La televisione, lì dentro, c'era, per carità. Ma era sempre spenta, se non per le partite di calcio.
E anche il quel caso, non c'era mai l'audio. Si ascoltava la cronaca da Radio Rai Uno.
Però, di calcio e della propria squadra, non si poteva parlare mai.
"E' un argomento caldo" mi ripeteva Anselmo, "e i clienti sono suscettibili su quest'argomento. E se si arrabbiano, c’è il rischio che non gli tiri. E se non gli tira, trattano male le ragazze".
Entravo, salutavo con un buongiorno generico i presenti e, mentre distribuivo i vari sorrisi neutri, il signor Anselmo mi preparava il primo caffé della giornata, con una spruzzata di sambuca. Il profumo inondava l'ambiente, come il passaggio di una donna d'alto borgo, e io mi avvicinavo al bancone. Lui scuoteva sempre la testa, senza salutarmi. Era il suo primo rimprovero quotidiano. Non sopportava il fatto che parcheggiassi nello spazio riservato ai portatori di handicap.
Ma non era nemmeno questo. In effetti, la mia non era pigrizia, perché sapevo che quel posto era libero. Come una cattiva abitudine portata avanti per anni. La mia era proprio stronzaggine, come mi diceva il signor Anselmo.
E con una ragione relativa.
“Stile” mi limitavo a rispondere.
Appoggiavo la sigaretta sul piattino, accanto al cucchiaino. Che non leccavo mai, nascondendo in quel gesto tutto l’odio che provavo nei confronti degli atteggiamenti sbagliati.
Lo guardavo, sorridevo, e dal modo in cui bevevo, capiva qual era il mio stato d'animo.
Spesso qualche signorina in attesa del suo prossimo turno, mi faceva qualche domanda. Se fossi fidanzato o meno, se avessi qualche desiderio o meno. Il signor Anselmo mi aveva insegnato a non dare troppa confidenza, poteva essere rischioso. Chiudeva gli occhi a fessura, come monito. Come un felino pronto a difendersi da un attacco. Anche quando quello attaccato ero io.
“È rischioso” ripeteva. "Innamorarsi di chi l'amore lo fa per lavoro, non porta mai a nulla di buono".
Non capivo perché dicesse ciò, ma mi fidavo a pieno e accettavo la sua regola.

mercoledì 28 novembre 2007

CINQUE ANNI DOPO

Non riesco ancora a capire come la gente possa apprezzare questa città. Milano mia, portami via, diceva Vecchioni. E chissà se almeno lui ci crede ancora in queste parole.
Io non capisco proprio dove possa portarti, in fondo, una città come Milano. Perché Milano ti castra, non riesce a darti nemmeno un’idea vaga di che cosa sia la vita vera. O ti mette su un altare, con le piogge che si appendono ai lampioni di via Dante e sembra che tutto sia preparato a festa solo per te. Oppure, ti blocca nelle code disumane delle cinque di pomeriggio, in quei coni d’ombra in cui nemmeno la radio si prende.
E la gente che ti urta, la gente che corre e non ha nemmeno voglia di darti delle informazioni. Forse Roma è diversa, forse Roma mi abbraccerebbe.
Ma in fondo no, non è questione di Milano. È troppo facile addossare la colpa a chi non si può difendere. Diciamocelo con chiarezza: la colpa è solo sua. Mi ha mollato così, senza dirmi nemmeno il perché. Bevendo dell’acqua, come se liquidarmi fosse una pillola contro il mal di testa. Forse avrei preferito che mi chiamasse al telefono. Senza il forse.
“Ciao. Sono io. Ti lascio. Non cercarmi più” e stop. Finita così. Un telegramma. Altro che farmi arrivare fin qui, fino a casa sua in Porta Ludovica. Altro che bicchieri d’acqua. Perché poi, quando una donna invita un uomo ad andare a casa sua, la prima cosa che viene in mente è un letto. E il sudore, l’affetto, l’odore della pelle che si mischia.
Mica uno pensa che lei ti voglia lasciare. Anche perché le cose andavano più che bene. Le cose, anzi, non erano mai andate così bene. Né un litigio, né una minima frazione.
Ecco, lo sapevo. Quando le cose vanno meglio, sotto c’è il tranello. Uno deve diffidare dei suoi migliori amici. Altro che aver paura della Polizia! La realtà è uno specchio. Non si capisce mai quello che ti vuol dire. Perché è ovvio. Ti trasmette, di riflesso, le immagini che tu gli proponi. E a volte anche di più. Uno dovrebbe essere in grado di dire: “Senti specchio. Sono davanti a te e tu adesso mi dici come mi sta questa maglietta”. E lui, no. Ti ributta addosso tante di quelle immagini, tante di quelle informazioni che la metà basterebbe a mandarti in tilt. La maglietta, i pantaloni, le scarpe, la libreria alle tue spalle, i colori del muro, gli interruttori, la giacca che hai lasciato appesa la sera prima, i libri messi lì alla rinfusa… tutto, ti trasmette. Come una segretaria iper diligente.
Invece, lo specchio dovrebbe capire che è solo una lastra di vetro. E in quanto tale, come una lastra di vetro dovrebbe comportarsi. E invece no. Gli specchi dovrebbero essere come le parole. Loro sì, che ti obbediscono. Se dico ‘cane’, significa cane. Automobile, automobile. Non si scappa. Certo, le parole hanno più significati, ma sei tu a deciderli. Mica loro.
Ecco, da oggi ho deciso. Non mi faccio più fregare. Gli specchi, li guardo solo di profilo. Così, giusto per capire a fondo l’essenza delle cose. Perché solo guardandoli di profilo, si capisce che uno specchio non è altro che una lastra di vetro. Da tutte le altre angolazioni, uno specchio non fa capire mai a nessuno che è solo uno specchio. Ti distrae, l’infame, mettendoti davanti tutte le altre immagini! Tu pensi a ciò che vedi e ciò che stai guardando, lo specchio appunto, non lo vedi più. Che… che… che stronzo!
Va be’, non pensiamoci. Né a lei, né allo specchio. Anche perché a lei, già non ci pensavo più. Lo specchio mi ha preso in toto. Che strano. Siamo così tanto fragili nei sentimenti, che può bastare l’idea di un riflesso, che non vediamo altro che tutto il resto e non siamo più concentrati su noi stessi.
Uno dovrebbe essere in grado di sentire a pieno il proprio dolore. Uno dovrebbe stare lì a capirlo, un dolore. Altro che mettersi a fare le bolle di sapone con il cervello.
Va be’, su. Andiamo a casa. Ormai la serata è andata come è andata. Devo assolutamente riposarmi. Domani mattina le cose saranno sicuramente migliori.
La notte porta consiglio e il primo caffé della giornata fa sempre girare meglio le ruote del cervello. Sì, come olio, altro che caffé.
No, no. Non distraiamoci un’altra volta.
Io, adesso, prendo il tram e me ne vado a casa. Ecco, sono quasi in Piazza XXIV Maggio. Speriamo solo che non sia appena passato.
Le luci delle macchine che passano di tanto in tanto mi illuminano di traverso i pantaloni e le gambe. Nessuno vede la mia faccia. Nessuno si chiede nemmeno come sia, la mia faccia.
Nemmeno io lo farei.
Ecco. C’è già un tizio sotto la pensilina. E questo significa che il tram non è passato. O per lo meno, che non è ancora passato.
Avrei voglia di sedermi, e di lasciarmi andare. Mi basterebbe anche solo mettermi le dita nel naso. Una cosa così maleducata che mi farebbe sentire a mio agio.
Mi avvicino, mi metto sotto la pensilina. Anche perché, me ne sto accorgendo ora, il freddo mi inizia a entrare nelle ossa. Non c’è vento, non piove. Certo, l’asfalto è ancora un po’ bagnaticcio, magari scivolo, batto la testa e lei corre da me. E grida: “Amore, amore, amore! Ti amo! Ti amo! Ho sbagliato tutto e tu stai male per colpa mia!”
E io: “Sì! Sì! È tutta colpa tua! Roditi!”, ma poi, mentre lei piange, le cingerei le spalle con il braccio. E le direi: “Ma no, amore, stai tranquilla. Non importa, contiamo solo noi due…”
Sì, certo. Ma se poi cadendo mi rompo il collo? E se poi resto invalido e lei non viene nemmeno?
No, no. È un rischio troppo alto da correre. Senza sapere nemmeno se lei verrà o no.
Mah. Mi siedo, va. Sotto la pensilina. C’è anche sto tizio, non so se fidarmi.
Magari è un serial killer. Magari è un pazzo rapinatore. Magari è uno normale. Con la ragazza che lo aspetta a casa ed è tanto innamorata.
E anche la mia, certo, è innamorata. Di un altro, sicuro. Ma almeno è innamorata.
I tram non arrivano mai quando ne hai bisogno. Sembra lo facciano a posta. Se non li cerchi, se hai la macchina, sono miliardi. Tanti da farti pentire di esser uscito con un mezzo tuo. Ma se invece hai non dico urgenza, ma voglia di tornare semplicemente a casa, niente. Come un dispetto, come la Polizia. Quando li vuoi, si fanno sempre desiderare. Come le donne, appunto.

Però che bella Milano di notte. Le luci che sbattono sulle saracinesche abbassate, le macchine che inquadrano le strade così, non per vederle ma tanto per fare.
Qualcuno che corre in mano con una bottiglia mezzo vuota, e chissà dove va.
E pensare che, proprio qui, anni fa ci deve pur essere stato qualcosa. Leonardo, vorrei proprio sapere lui come ha fatto a farsi venire in mente l’idea dei Navigli. E chissà quanto sarebbe umiliato dal sapere che adesso sono ridotti a una discarica, praticamente.
No, no. Non penserebbe minimamente alla sua opera. Uno come lui sarebbe lì a sbavare dietro alle automobili. Ce lo vedo. Gli occhi spanati, la bava che cola sulla barba lunga e bianca.
Nel mio immaginario, Leonardo è un po’ come Dio. Come Mosè. Chissà perché. Chissà che influsso ha avuto il cinema nel mio cervello.
“Scusa, hai una sigaretta?”
Quasi mi spavento. Ero tutto preso dai miei pensieri, che per un momento mi sono isolato dal mondo.
“No, mi spiace. Non fumo”
“Va be’, ce le ho io”
Lo guardo male. Prima mi fa una domanda e poi ce le ha? È come se uno mi chiedesse mostrandomi l’orologio che ore siano! La gente è strana.
Si accorge della mia faccia perplessa. Non devo avere uno sguardo molto intelligente.
“No, è che mi sembra di stare qui da una vita. Sono appena tornato a Milano e volevo fare quattro chiacchiere con qualcuno.”
Meno male, era solo un pretesto per attaccare bottone. Non è un pazzo. Mi sento meglio.
“Be’, sì. Alla fine, è meglio farsi quattro chiacchiere. Il tempo passa meglio”, gli rispondo.
E poi, via. Uno inizia a parlare del tempo, della città, e poi diventa tutto facile.
“Ma scusa, sei stato via per lavoro?” gli chiedo.
“Sì, in un certo senso sì.”
“E che lavoro fai?”
“Non saprei come definirlo. È una cosa un po’ complicata. E tu? Lavori?”
“Sì” dico, “faccio il correttore di bozze in una piccola casa editrice, qui a Milano.”
“E ti piace?”
“Be’, sai. Alla fine, un lavoro vale un altro, quando devi pagare l’affitto. Poteva andarmi peggio”
“Sì, è vero. Può andare sempre peggio. E quando meno te lo aspetti”
Ecco, questo è vero. Uno si distrae un attimo, e le cose cadono in un baratro tanto profondo che non lo si riesce nemmeno a immaginare.
E poi i minuti passano, e del tram nemmeno l’ombra. Mi sono alzato, parliamo ormai e lui fuma come un turco. Per carità, non che i turchi fumino in maniera particolare. Almeno non credo. Si dice. Lui, comunque, si fa una sigaretta via l’altra.
Ad un certo punto, lancia via il mozzicone e mi dice di andarcene a piedi.
“Be’, io devo andare verso Cadorna”, gli dico.
“Anche io. Allora, sai cosa facciamo? Facciamoci una passeggiata”
Ci avviamo e continuiamo a parlare del più e del meno. Lui deve essere stato via da Milano un po’ di anni, da come ne parla. Non riesco a capire se, nelle sue parole, c’è più nostalgia o semplicemente distacco. Ma non importa. Tutto sommato, è andata meglio di quanto potessi sperare. Meglio così che stare da solo, fermo come uno scemo, seduto sotto una pensilina ad aspettare un tram. Che non arriva, per giunta.
Passiamo davanti alle colonne di San Lorenzo. I ragazzi bevono, qualcuno ha anche la chitarra e canta. Guccini, De Gregori. Passano gli anni, ma le canzoni restano. Pazzesco. Non c’è più stata una canzone da falò dagli anni 60?
Giriamo a destra in via Torino. Più o meno verso metà, vediamo i tram bloccati. Ecco perché non passavano. Ci sono due macchine, un’Audi e un Mercedes, che hanno fatto un mezzo frontale. Bloccando la strada in entrambi i sensi. Ottimo.
I due conducenti sono già scesi. Uno di fronte all’altro.
“Sei una testa di cazzo!”
“No, sei tu che sei un figlio di troia! Come cazzo guidi!”
“Non ti permettere! Io ti denuncio!”
“E certo! Mi denunci perché sei un figlio di troia!”
“Guarda che non immagini nemmeno chi sono io!”
Come nei film di Totò.
“Sì che lo so! Sei un figlio…”
Be’, questa era servita su un piatto d’argento.
Non voglio nemmeno sapere per quanto tempo ne avranno.
“Certo che deve essere una gran bella rottura di coglioni”, mi dice il mio nuovo amico guardando la scena divertito, “restare bloccati con il tram a quest’ora!”
“Poveri Cristi. Magari stavano anche per finire il turno”
“Senti. Lì c’è un bar. Beviamoci una cosa. Per dimenticare.”
“Ma veramente…”
“Dai, non fare il guastafeste. Sono appena tornato a Milano. Fammi compagnia!”
E va bene. Andiamo. Mi prende per un braccio e mi trascina dentro il bar qualsiasi.
La folla di ragazzi che beve e che grida non passa certo inosservata. Ma riusciamo anche a trovare un tavolo.
“Ragazza!”, grida, “Ci porti una bottiglia di vino? Quali avete? Sì, sì. Va benissimo quello lì”
“Non sarà troppo, una bottiglia?” gli chiedo.
“Ma figurati. Offro io, e quindi ordino ciò che voglio, no?”
Ride, rido anche io. Il suo discorso non fa una piega.
“Sono appena tornato, festeggiamo”
È una cosa che dice troppo spesso. Mi sta mettendo addosso una curiosità immonda.
Arriva una ragazza, con la bottiglia già aperta e due bicchieri in mano. Lascia tutto sul tavolo alla rinfusa. Ha uno scontrino in mano e aspetta. Non dice nemmeno quanto è.
Il mio amico paga.
“Il resto tienilo. Ché tanto, qui dentro, per quello che lavori ti pagheranno da far schifo”
La ragazza sorride. Sembra esser stata colta nel punto giusto.
Se ne va sculettando, i fianchi avvolti da un grembiulino minuscolo con disegnato lo stemma di una birra.
Prendo la bottiglia, riempio i due bicchieri.
“Al mio ritorno”, dice lui. E picchiamo il vetro sollevandolo verso l’alto.
“Ma senti. È un po’ di volte che dici che sei tornato. Ma da dove?”
“Sarebbe troppo lungo, da spiegare”
“Be’, tanto di tempo ce n’è, no? O dobbiamo fare altro? Non mi pare”
Mi sorride. Ha proprio voglia di parlare. Beve un lungo sorso, io mi bagno appena le labbra.
Si stende sullo schienale della sedia. Allunga le gambe. Inspira, espira. Si rifà su e si mette coi gomiti appoggiati al tavolo, di scatto.
“No, hai ragione. Non pare nemmeno a me”, dice.
Mentre io penso a quanto sia più facile confidarsi con le persone che non si conoscono quasi. Che non si conoscono affatto, meglio.
E mentre lui inizia a parlare. Va bene, sentiamo.

sabato 3 novembre 2007

dichiarazione d'intenti

Luce.

Dunque.
Questo voleva essere un libro stampato e pubblicato.
Ma è più facile mangiarsi il gomito, piuttosto.
E siccome nessuna storia esiste se non la si conosce, eccola.

Questa è la storia che voglio raccontare.
Non sono io. Nè i miei momenti nè i miei pensieri.

Un capitolo, ogni giovedì sera, lo metto on line.

C'è un tizio su un'Alfetta gialla del '75 in una Milano che si guarda le scarpe.
E, di là, un intero esercito di piccioni.
Con le piume e tutto il resto.
Addestrati per uccidere e per riazzerare.
Schierati da trent'anni.

Adesso, a un tizio su un'Alfetta gialla del '75, tocca dover reagire.
O fare qualcosa.
Qualsiasi cosa.

Buona lettura.
Buio.