giovedì 10 gennaio 2008

Cinque

Nel capitolo precedente: non ho capito molto bene, a sto giro, cosa volesse dirmi. Si è messo a raccontare una storia del '69. Di quando a Milano è scoppiata la bomba alla Banca dell'Agricoltura.
Come se fosse lui il protagonista e ancora Emily la sua compagna.
Ma loro, nel '69, è impossibile ci fossero...mah.
Che storia triste, per giunta. Almeno, con una barzelletta, persino una di quelle sugli ebrei, la situazione sarebbe più leggera.
E poi, all'improvviso, si è messo a sorridere come raccontasse una storia sentita a cena da altri.
Divertente o meno, è sempre prestigio, no?
Eccolo, su, che mi riguarda. E riprende.
Paradossale come scivolino le parole, in certe situazioni.



La domenica sera arrivò presto. Le partite erano finite e io non conoscevo nemmeno un risultato.
Avevo trascorso l’intero pomeriggio al buio, fuori pioveva e le gocce battevano sulle tapparelle mai sollevate dalla mattina. Nella camera da letto ristagnava l’odore acre delle notti insonni, con il posacenere colmo di cicche sul comodino. Ma ormai il mio naso si era abituato, dopo un iniziale disgusto. Ero rimasto seduto in poltrona da che mi ero svegliato, non avevo mangiato né a pranzo né a cena.
La lettera tra le mani, nessun pensiero vero e, in testa, solo una parola: uh?
Mi sedetti e accesi la radio, credendo che il calcio mi avrebbe per lo meno distratto. L’angoscia mi stava prendendo alla bocca dello stomaco. Più per il timore di quello che poteva succedere a me che del venire a conoscenza di chi fosse il morto.
Poco prima di mezzanotte telefonai ad Emily, una ragazza di quelle del bar. Fortuna che era a casa. Volevo chiederle di accompagnarmi. Con lei ero un po’ più in confidenza, rispetto alle altre. Non che ci conoscessimo, ovvio, qualche monito del signor Anselmo l’avevo ancora ben presente. Però lei ogni tanto aveva bisogno di parlare e ogni tanto mi chiamava, perché forse, sembrando coetanei, mi sentiva più vicino a lei di quanto lo fossero le altre.
Era una nuova del giro fisso e aveva avuto una storia del cazzo alle spalle. Si drogava e faceva vedere le tette agli amici, all’inizio. Poi, con quei soldi non ce la faceva più, e allora qualche sega, qualche pompino. Aveva toccato il fondo quando anche il prete, in confessionale, le aveva fatto un’avance per una dose. Pensare che il padre le aveva dato quel nome con un senso di dolcezza fuori dal comune. Per ricordare una bella amica in una brutta situazione, mi aveva detto.
E così, forse anche per questo, aveva smesso di drogarsi, voleva chiudere. Cliniche, giorni legata ad un letto, mangiando sbobba. Come in caserma.
“Ma chi l’assume più, una che si drogava”, mi aveva detto un giorno. Così era tornata a fare l’unico mestiere che era in grado di fare. Di cui la natura l’aveva dotata, diceva ridendo.
Mi aveva lasciato il suo numero di telefono, qualora avessi avuto anche io voglia di sentirla. Non era mai successo, prima d’ora. Ma quando uno realizza di essere solo, cerca un qualsiasi appiglio per non crederci.
Ci avevo messo poco più di dodici ore a decidermi, però.
“Pronto. Emily. Sono io. Come stai?”
“Ciao, io sto bene!”
“Ok. Mi fa piacere. Senti. Domani mattina devo andare da un notaio per la lettura di un testamento. Ti va di accompagnarmi?”
“Certo. Così magari quando esci da lì, sei ricco sfondato e mi porti via da questa merda!” continuava a ridere come una ragazzina. Con l’eccitazione sciocca che prova un neo patentato a guidare sotto la pioggia.
“No, guarda. Mi sa che è solo una formalità. Cose burocratiche. Tanto più che né ho sentito di parenti morti, né ho mai conosciuto persone ricche”.
E chiusi una conversazione che avrebbe potuto costituire uno spiacevole precedente, senza nemmeno salutare.

Nessun commento: