giovedì 6 dicembre 2007

DUE

Nel I capitolo: l'ha presa un po' alla larga, la sua storia, questo qui. Però è anche piacevole sapere cosa facesse a Milano. Dice che lavorava in un bar di un locale ad ore, insieme ad un vecchio, il signor Anselmo. Il suo mentore, insomma, che fondamentalmente lo ha traghettato nel 'mondo del lavoro'. Mah. Ce ne son di lavori strani.
Però doveva essere anche un bel tipo, lui. Che girava per Milano con un'Alfetta gialla del '75 e che parcheggiava per stile, a suo dire, negli spazi riservati agli handicappati. Come fosse normale. Alfetta gialla più strisce gialle. Per far pendant.
Un po' mi piace, e un po' mi sembra deficiente. Chissà perché me le racconta a me, certe cose.
Ma sì, ma tanto è ancora presto. Facciamolo andare avanti.




Lavorare in un bar di un albergo ad ore è diverso dall'essere un barista normale. I meccanismi sono diversi. Gli occhi sono diversi. Nei volti dei clienti da subito si vede se parleranno con le ragazze, se la loro prestazione sarà accettabile o se hanno il cazzo piccolo. Sono cose che si imparano col tempo e tra le piccole rivelazioni delle donne, mentre versavo loro il bicchiere di Coca Cola utile a bruciare la merda che avevano nello stomaco.
La cosa particolare del signor Anselmo era il fatto che profumasse di caffé appena macinato. Pensavo che lo tritasse prima di uscire di casa e che l'odore gli si incollasse addosso. Che la sua casa e i suoi vestiti fossero impregnati di quell'abitudine, perpetuata come un rito negli anni.
In fondo, non era poi così strano che un uomo, solo per giunta, potesse avere delle abitudini così vincolanti. In fondo poi, a chi doveva rendere conto, se non a se stesso?
Le giornate passavano tra sorrisi e quattro scambi di parole, nulla di profondo sia chiaro, poiché l'unica cosa che era considerata profonda, lì dentro, erano le gole delle stanze in attività.
Ma il signor Anselmo mi guardava e mi conosceva ogni momento di più. Parlava e si rideva, non parlava e cadeva un silenzio privo di imbarazzi. Dalla cura della sua barba avevo imparato a mia volta il suo stato d'animo, dagli sguardi che metteva negli occhi delle donne capivo il suo rammarico.
Credevo che ne avesse viste tante negli anni, credevo che avesse capito il mondo. E credevo che, come me, credeva che il mondo fosse veramente brutto.
Era appena arrivato un ottobre insieme a un cielo era bigio e pesante, come spesso accade a Milano. L’ora del radiogiornale sanciva la fine del nostro turno. Per la prima volta, gli occhi del vecchio barista mi guardavano senza spessore. Sembravano tristi come due bicchieri vuoti, l'uno accanto all'altro. Senza null’altro da offrire, se non il tavolo attraverso il vetro.
Spesso accadeva che entrasse un tipo particolare. Non salutava mai, con il suo impermeabile crema tanto liso che sembrava trasparente. Avrei scommesso che, appallottolato, ci sarebbe stato in un pugno. Prendeva il signor Anselmo da parte e parlavano per diverso tempo. Il signor Anselmo, non appena lo intravedeva dall’opaco della vetrina, lanciava la macchina del caffé e preparava una dose di grappa in un bicchiere a parte. Il tizio entrava a si sedeva al primo tavolino libero che gli capitava. Si sfilava il soprabito, lo poggiava sullo schienale della sedia accanto alla sua e aspettava. Pronto il caffé, con la grappa nell’altra mano, il vecchio lo raggiungeva al tavolo e per un po’ parlavano. Sembrava una chiacchierata tranquilla, il tizio faceva domande e il signor Anselmo rispondeva. Il tutto sottovoce, come fossero segreti di vecchi amici. Il tizio rideva e il signor Anselmo abbassava gli occhi.
Mi aveva detto che era un commissario, Scacchia di nome, e che lavorando in un posto così bisognava aspettarsi che le forze dell’ordine giungessero a controllare. E che esigessero un trattamento di riguardo. Infatti, caffé e grappa erano i soliti omaggi della ditta. Tuttavia, non mi era chiaro il tono da sfottò che veniva usato in certe circostanze. Ma non importava, diceva il signor Anselmo, sono cose che capitano. E poi si conoscevano da anni, la cosa era più che rodata.

"Sono stanco", mi disse mettendo il bicchiere e le due tazzine nel cestello della lavastoviglie.
Ero stanco anche io e, da sciocco, pensai che fosse una delle stanchezze di tutti i giorni.
Scosse la testa, come fanno gli zii di fronte alle leggerezze dei nipoti.
"Domani non verrò. E nemmeno dopo domani. Mi sono stufato".
Ne fui scosso. Luana, una puttana grassa e presuntuosa che non veniva mai scelta, scoppiò a ridere.
"Finalmente ce lo caviamo dalle palle, 'sto vecchio!"
Fui tentato di gridarle addosso, ma non ne valeva la pena.
Il signor Anselmo mi fece cenno con la mano di lasciar perdere. Inarcò leggermente le labbra verso il basso, con un disprezzo tale che soffocò la gola di Luana in un silenzio piatto.
Accese una sigaretta e la strinse tra i denti.
“Come fanno gli anarchici” di solito diceva ammiccando quando mi scopriva ad osservare quel gesto. Nel tempo in cui era stato al bar, forse per non urtare la suscettibilità dei clienti, non aveva mai espresso idee politiche, a pensarci. Ma probabilmente era troppo poco, quel gesto, per poterlo ricondurre a una qualsiasi corrente di pensiero.
Mi chiese di accompagnarlo a bere qualcosa in un bar poco distante, che aveva guardato tutti i giorni, ma in cui, negli scorsi quarant’anni, non aveva mai avuto il coraggio di entrare. Accettai, visto che in fondo non mi costava nulla. E, in fondo, non l'avrei più rivisto. Né lui, né il bar.
Dopo gli abituali addii e le frasi di circostanza, uscimmo. Cominciava a piovere, ma non ce ne preoccupammo. Nel silenzio più assoluto, cambiammo bar e mi stupii del fatto che salutasse la cassiera chiamandola per nome. Poteva avere venti anni meno di lui e, da come si erano guardati, sembravano conoscersi bene.
"Ma non avevi detto che non c'eri mai entrato?" gli chiesi quasi a prenderlo in giro.
"Non ci sono mai entrato, ma il caffé lo compravo ogni mattina fresco e appena macinato sempre per lei. L'amavo" mi rispose in modo secco, da marinaio.
“E poi lei era giovanissima, bellissima. Pensa, la spacciavo per mia nipote per non dare nell’occhio.” Rise con una mano sugli occhi.
E in quattro parole, come al solito, mi disse tutto. Che era stato fidanzato con quella donna, mi disse, che l'aveva conosciuta anni addietro, quando ancora a Milano ci si spostava a piedi. Il cuore pulsante della città allora spingeva i tram lungo le sue arterie, non le macchine. Che era durata tanto, ma poi le cose cambiano. Che lei pensava si potesse recuperare, che si potesse scegliere di tornare ad amare qualcuno che si era lasciato. E che, qualche tempo dopo, si era messa a lavorare lì per potersi vedere tutti i giorni come estremo tentativo disperato.
“Si sa che da giovani, per amore si è pronti a tutto”, dissi.
E proprio per questo, lui l’aveva lasciata per una signorina che batteva sulle strade, nell’illusione di tirarla fuori dal giro e di sposarla.
"Sciocchezze che nascono nel cuore degli innamorati"
Per lei aveva lasciato tutto e aveva iniziato a lavorare dove da ora avrei lavorato solo io.
“L’unica cosa che mi è rimasta di lei è il piacere per il caffé appena macinato”
E questo il motivo di quell’odore pregnante, pensai con quanta più banalità potevo trovare nelle mie tasche.
"Ma chi ama per denaro, non conosce l'amore per l'amore".
Aveva lo sguardo di chi doveva dare una spiegazione per forza, e non stava a me deluderlo.
"Per questo, la storia della non confidenza eccetera?" domandai.
Si limitò ad ordinare due birre medie, chiare. "Quali c'avete? Sì, quella lì va benissimo", e mi citò un monologo di Gaber, sorridendo come a ricordare un vecchio amico.
Bevemmo in silenzio. Solo alla fine di entrambi i bicchieri e delle sigarette di ciascuno, mi rivolse ancora la parola.
"Ragazzo, lascio tutto quello che faccio nelle tue mani. Decidi qual è il limite della decenza e decidi qual è il limite della tua autorità. Devi saperti far rispettare, non farti mai mettere i piedi in testa. Il nostro compito è servire. Siamo camerieri, in fondo, ma non siamo servi. E' una sottile differenza, ma è come quando mastichi e ci si morde la lingua. Non te ne accorgi, ma quando vai appena oltre, già fa male".
Non disse altro e io pensai che si riferisse solo al bar. Lasciò dei soldi sul tavolo, mi diede una pacca sulla spalla ed uscì. Gli dissi addio come per istinto, salutandolo appena con il braccio e seguendolo con gli occhi accendere la sua Cinquecento bianca e allontanarsi dopo l'ultimo turno.

Le gocce di pioggia cominciavano a battere con insistenza sulle vetrine del bar, rovinando i contorni delle macchine che passavano.
Di persone in giro, non ce n'era nemmeno l'ombra. Qualche piccione si aggirava sui marciapiedi cercando forse qualche briciola da mangiare. Che esistenza misera.
La tristezza dell'autunno oramai stava prendendo gli alberi e la natura. Le foglie cadevano pesanti d’acqua con i miei rimorsi, per non esser nemmeno riuscito a ringraziare quel vecchio che mi aveva dato tanto.
Nelle scuole gli studenti giravano a testa bassa, sotto il peso più dei libri che delle interrogazioni.
I ricordi ancora caldi si erano persi nella lingua di qualcuno che aveva avuto persino il coraggio di innamorarsi.
"Può uscire, per favore?" mi disse seccata la cassiera.
"L’educazione?" domandai acido.
"Questo è il mio bar e faccio quello che mi pare. Nessuno la obbliga a entrarci”, mi rispose con un certo disprezzo tra le palpebre. Si alzò e si allontanò, nel retro. Non aspettò che uscissi.
Per vendetta, affondai la mano nel cestino pieno di cioccolatini a poche lire accanto alla cassa, e cercai di portarne via il più possibile.

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