lunedì 24 dicembre 2007

12 DICEMBRE 1969

Nel capitolo quattro: chissà perchè. Chissà come mai. Chissà perchè raccontare proprio a me queste cose.
Mi chiedo che cosa sia successo. Anche perchè uno non è che riceve una convocazione testamentaria di punto in bianco.
Ma deve essergli successo qualcosa di brutto, cazzo.
Perchè adesso ha iniziato una storia che non c'entra niente.
E che parla di cose lontane. In cui, per me, lui non c'entra affatto. Ma per qualche strano motivo lo coinvolgono.
Occhi verso l'alto, voce più bassa. Come se riportasse un ricordo di qualcun altro, che non riesce a trattenere tra le labbra.
Come fossero parole di sigaretta.


Una signora fuma soffiando verso l’alto e io metto soltanto un piede in avanti. Vorrei avere qualcosa tra le mani che mi tenga occupato, ma se prendo una birra finisce che la bevo tutto d’un fiato. Poi due minuti, e sono punto e a capo. Tanto più che qui, all’inizio di via Dante, costa troppo. Quindi accendo e spengo mille sigarette, sperando che Emily arrivi presto. Senza calcolare che non ho nemmeno molti soldi e più tardi vorrei offrirle anche qualche cosa.
Un cinemino, che ne so. O una tazza di caffé americano, che in questo periodo va molto. Meglio essere alla moda, sì.
La cosa più curiosa di Emily è il suo costante ritardo. Non ho ancora capito se mi fa impazzire o se mi fa tenerezza. Non credo lo faccia apposta, ma resta il fatto che, sommando i ritardi, mi ritrovo ad aspettarla per delle ore. Che sono ancora più lunghe, ancora più alienanti, se ad ogni nostro appuntamento arrivo con almeno venti minuti di anticipo. Mi dispiacerebbe farla star sola per farle capire che cosa si prova, anche se non succede mai.
Emily, Emily. Mi piace questo nome. Una volta, lei mi ha anche detto che se non fosse riuscita ad avere dei figli, avrebbe voluto che qualcuno desse il suo nome a una bambina. Come a voler vivere ancora un po’ di più dopo la morte.
Che sciocchezze.
Mi guardo le dita e si stanno arrossando poco a poco. Ho dimenticato a casa i guanti. Lo faccio sempre, prima di darmi dell’imbecille e ripromettermi di non farlo più.
Faccio l’ultimo tiro e lancio via la cicca facendo leva con il medio sul pollice. Fa proprio freddo, lo sento nelle ginocchia. Mia madre lo dice sempre. I jeans sono i pantaloni peggiori potessi scegliere. Freddi d’inverno e caldi d’estate. Be’, ma almeno in autunno e in primavera sono perfetti.
Ma piuttosto che darle ragione, perdo la sensibilità delle gambe. Quest’anno poi, che dicembre è arrivato subito e l’autunno è stato particolarmente rigido. Dicono che andrà peggiorando con gli anni. E se non ci mettiamo un po’ d’attenzione, rischiamo di non far nascere i nostri nipoti. O pronipoti. O pro- pronipoti.
Tanto, ora che arriveranno i miei pro- pronipoti, una soluzione, l’avranno già trovata. Va be’. Staremo a vedere.
Noi, io e Emily intendo, quest’inverno, ce lo stiamo vivendo a fondo. All’aperto, in piazza. Stanno succedendo un sacco di cose, bisogna dire che non siamo d’accordo. Vogliamo dire la nostra.
Vogliamo? Io voglio stare con lei, questo mi basta. Ci vuole fegato per volere tutto.
Quando Emily arriva, battendo i tacchi sull’asfalto, i capelli corti e la sua borsa, mi dimentico di ogni cosa. Si apre in un sorriso che mi riscalda, si è appena truccata le labbra.
“Sei qui da molto?”
“No, appena arrivato”, mento. Batto i denti e inizio a credere all’ipotesi del principio di congelamento.
Lei mi tira a sé e si alza sulle punte dei piedi per baciarmi una guancia. Ma quando mi sfiora una mano, si accorge che è particolarmente fredda.
“Ma sei ghiacciato!”
“Guarda il lato positivo. Mi sto conservando meglio”
Sembro addirittura contento. Non c’è mai fine alla menzogna. Ho paura persino ad aprire la bocca. Se lo facessi, con il freddo che fa, rischierei di perdere i denti. E, di certo non potrei scambiare una vita a gelato e semolino con un semplice sorriso. O no?
Emily si giustifica. È arrivata in ritardo perché era al telefono con un suo compagno d’università. Dice che alle quattro e mezza hanno appuntamento in Piazza Fontana. Deve darle degli appunti, perché non è andata a qualche lezione, dice.
Il fatto è che Emily, a lezione, non ci va mai. Studia lingue, visto che sua madre è originaria della campagna londinese.
“Io studio lettere classiche, ma questo non significa certo che mio padre sia Omero”, le dico ogni volta che si giustifica in questo modo.
Fatto sta che a prendere gli appunti ci dobbiamo andare, non si scappa.
Per fortuna abbiamo un po’ di tempo a disposizione. Non troppo, ma abbastanza.
“Facciamo una passeggiata?” mi chiede senza volere davvero una risposta. Mi si mette sottobraccio e ci avviamo verso piazza del Duomo. Parliamo a pochi centimetri di distanza, le mani che gesticolano e poi corrono di nuovo nelle tasche. È appena uscito un nuovo disco che io non ho ancora sentito, e mi becco un rimprovero per questo.
“Ci sono delle cose che bisogna assolutamente fare. O le fai, o sei fuori”, e io mi chiedo se sia davvero possibile stare dietro a ogni cosa. Sta cambiando tutto, dentro e fuori. Io non ce la faccio a stare dietro a questo 1969.
Così, per rimediare, parlo del Natale. Funziona sempre. Tanto più che le feste sono a ridosso.
“La notte di Natale, i miei mi costringeranno ad andare a Messa a mezzanotte. Ogni volta provo a evitarla, ma sembra un’evasione da un carcere. Niente da fare. E devo violentarmi per non addormentarmi e cadere a peso morto su quelli che mi stanno vicino!”. Ride, continuo.
“Perché poi, c’è quest’aspetto strano delle Messe di Natale. Nessuno sa i canti, ma tutti vogliono cantare. E allora, solo la fine delle parole, in uno strascico che sembra un lamento dei gatti…” ride ancora, continuo.
“Che poi la gente nasconde gli sbadigli a bocca aperta, quelli che ti appannano gli occhi, nei sorrisi enormi rivolti verso persone che si vedono solo in certe occasioni e…”
“Io andrò dai miei parenti a Londra”.
Resto di sasso. Pensavo persino di farle un regalo.
“Non so se si faccia nemmeno il cenone. Io, a Londra, non ci sono mai stata”
“E allora vedi che devi studiare all’Università, ché non sai un cazzo!”
Ok, lo penso ma non glielo dico.
Attraversiamo Piazza Mercanti come se attorno a noi non ci fosse nessuno. La gente scorre battendo a malapena i piedi sulla pavimentazione. Sembra quasi che voli, tanto sembra leggera. O forse è a noi che non interessa e, credo, se qualcuno potesse ribaltarci come in quelle sfere trasparenti in cui c’è la Milano ricordo per i turisti, potrebbe anche mettersi a nevicare.
Proverei un’immensa dolcezza per questa immagine, se solo riuscissi a spiegarmi come diavolo facciano gli inglesi a mangiare le patate con la buccia.
“Non è per tua nonna, chiaro. Ma che incivili! Da che mondo è mondo, lo sanno tutti che le patate, si sbucciano prima di mangiarle!”, ma lei non è per niente d’accordo.
Figurarsi. Mi insulta quasi, quando mi dice che sono ancorato alla mia cultura, che ci manca solo che le dica che tutto il mondo è paese, e invece adesso bisogna aprirsi e provare.
“Non è questione di culture. Il punto è che la buccia si toglie. Semplice! Tu le arance le mangi con la buccia?!” e non mi accorgo che, nella discussione mi sono messo a gesticolare come un matto. Disegno patate nell’aria e mimo lo sbucciamento. Per fortuna l’attenzione di Emily è tutta centrata sulle mie dita. Non avrei saputo come raccapezzarmi, in un discorso del genere.
“Che dita rosse” mi dice. Io non faccio altro che annuire, ma non riesco ancora a metterle nelle tasche che lei si sfila i guanti e le prende le mie mani tra le sue.
Sono abbastanza calde e la cosa sembra funzionare.
Sollevo appena lo sguardo e cado nei suoi occhi. Il sangue mi sale al collo, lo stomaco si chiude e quasi comincio a sudare. Sarà influenza?
Con un gesto deciso, sfilo le mani dalla sua presa e me le rificco in tasca. Calco fino ad incurvare le spalle.
“Meglio non esagerare…ché se poi ho un principio di congelamento, chi mi porta all’ospedale?”
Non poteva esserci modo più goffo di recuperare la situazione.
Lei mi sorride, per fortuna con tenerezza e non con compassione. Ritorniamo a parlare del più e del meno, solo in maniera più sobria.
Forse, avrebbe voluto che la baciassi.
O forse lo avrei voluto io, che lei lo volesse. Ma questi sono discorsi da sciocchi. Certe cose non si sapranno mai.
Però, se anche lei l’avesse voluto, magari sarebbe stato tutto più facile.
Stasera Piazza del Duomo si mostra sotto una veste leggera di nebbia e smog. Sembra quasi di essere parte della storia della città, con i fanali rotondi delle 500 e i lampioni gialli, con le insegne natalizie dei negozi e delle vetrine, che non sai mai se ti invitano o ti vendono la felicità. Ma a me quella felicità non serve, perché in questo momento tutto quello che voglio è avere ancora freddo, che l’inverno duri ancora molto, perché io possa dimenticare ancora i guanti e lei possa stringermi ancora le dita.
Attraversiamo tutta la piazza, giocando a non calpestare le righe segnate dalle piastrelle del sagrato. Lei ride e saltella, io non riesco a farlo. Un tallone, una punta, un piede insomma, mi frega sempre. Deve essere una cosa genetica. C’è gente che non riesce a fare la U con la lingua e io non riesco a non pestare le linee.
O forse è una forma di comunicazione aliena, che mi impedisce di coordinare i movimenti. Che fortuna, si sono scelti il tizio giusto. Che non sa l’inglese e che parla una delle lingue più articolate della terra.
E se si presentasse davanti a me un marziano? Penserei che è uno sballato e gli tirerei un pugno. Sicuro.
Bel modo per cominciare i rapporti.
E poi, dal lato dell’alieno, dopo un’accoglienza così, è naturale che mi faccia fuori. Con tutta la mia razza di trogloditi violenti ignoranti. Perché lo sanno tutti che gli alieni sono secoli davanti a noi. Basta un attimo e pum!, tutti morti.
Che angoscia! Che responsabilità!
“Che gioco scemo”, dico. Emily si ferma e mi tira a sé. Non mi ha nemmeno ascoltato. Per lei, il gioco è finito da un pezzo.
“Guarda quella donna con quel bambino, lì” e con l’indice mi indica due corpi, di diversa misura, imbacuccati in cappotti e sciarpe color cammello. Le gambe spuntano magre da sotto. Sono fissi davanti alla vetrina e il più piccolo si sta riempiendo gli occhi di giocattoli come mangiasse venti castagne contemporaneamente.
Mi sembrano due arancini fritti male giganti.
Non esito a farlo presente.
“Che scemo, che sei!” e mi parla dello Spirito del Natale, dell’attesa che fa aumentare del desiderio.
“Altro che Sabato del Villaggio!” faccio io. Ma lei continua, e dice dei conti nella busta della tredicesima perché il figlio possa credere ancora a Babbo Natale e la mamma possa aspettare i saldi. E aggiunge pure che in quegli sguardi ci sono tutti gli elementi del Natale, il cenone, la famiglia, i maglioni di lana pesanti, le corse con i cugini e l’odore dei camini e della legna.
“La mia maestra, alle elementari, ogni anno portava il calendario dell’Avvento. Quello con un cioccolatino per ogni giorno. E ciascuno, nel giorno che corrispondeva al suo numero di registro, andava a prendersi il suo cioccolatino. Io ero il 23, l’ultimo dell’elenco. Non lo prendevo mai, il cioccolatino, perché il 23 era il primo giorno di ferie”. Quasi mi metto a piangere.
Mi fa una carezza di lana, col guanto.
“Poverino”
“Poverino un cazzo! Quella stronza se lo mangiava lei, scommetto... adesso la vado a prendere e mi faccio dare 24 anni di cioccolatini arretrati!”
“Ma sarai scemo!”, e ride ancora.
Le quattro e mezza sono passate da un paio di minuti, bisogna correre.
Non capisco come mai Emily arrivi sempre puntuale agli appuntamenti con gli altri e mai a quelli con me. Cos’è? Lo fa apposta? Ce l’ha con me?
Ma non è il caso di fare polemica, non ci riuscirei, ho già il fiatone.
All’angolo con il palazzo dell’Arcivescovado, prima di entrare in Piazza Fontana, c’è un baracchino ambulante dal quale sale del fumo.
L’odore delle caldarroste mi rapisce e mi fermo. Le voglio.
“Prendo le castagne” le dico e lei mi risponde con un gesto che va bene.
“Bella ragazza” afferma soddisfatto il venditore, “Complimenti!”
Come se fosse merito mio. È la mia luce che la rende bellissima, ovvio. Che sciocchezze.
Però non posso fare a meno di ringraziare. Anche perchè me le regala, le castagne. Con la bellezza si aprono tutte le porte, è proprio vero.
Mi fermo all’angolo tra via dell’Arcivescovado e Piazza Fontana e faccio appena in tempo a individuare Emily che parla con un tizio davanti alla Banca dell’Agricoltura. Che tra l’altro ha una sciarpa rossa come la mia.
Non so ancora se provo un filo di gelosia o forse d’invidia, che un bagliore mi investe e le vetrine della Banca si gonfiano come bolle di sapone. E poi, proprio come bolle di sapone, esplodono.
Il calore delle caldarroste mi scotta le mani. Le lascio cadere a terra. Tutte quante.

Magari, se avessi avuto i guanti, non sarebbe successo.

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