giovedì 13 dicembre 2007

TRE

Nel capitolo due: in effetti ne parla con un po' di nostalgia, di quei giorni nel bar. Con le abitudini e i piccoli gesti che si ripetono nei giorni. E in fondo è anche giusto. Perchè uno vede intorno a sé solo ciò che, alla fine, vuol vedere. E grande doveva essere anche l'affetto per quell'Anselmo, e per i suoi incontri sottovoce con quel commissario Scacchia dall'impermeabile sottile che, di tanto in tanto, lo veniva a trovare. Per parlar di qualcosa, sottovoce, che nessuno sa.
Ma forse, la cosa che più deve averlo ferito, è stata la scelta del vecchio di andare in pensione. Di punto in bianco. E dirlglielo confessandogli il piccolo segreto di un'amore con la donna del bar di fronte. Per la quale aveva preso l'abitudine di macinare il caffè ogni mattina, con quell'odore che gli è rimasto addosso per una vita. Come fosse una specie di contrappasso per chi lavora con l'amore mercenario, non avere mai un amore reale.
E poi, la Cinquecento bianca del vecchio si era allontanata nella pioggia, lasciando il tizio così. Cacciato dal bar della donna con una manciata di cioccolatini rubati. Un gesto di rivincita per un uomo che non avrebbe visto più.
Chissà come son diventate le cose, poi.


Io, il suo posto, non ero stato in grado di prenderlo. Giustificarmi dicendo che non ero stato in grado però, non sarebbe del tutto corretto. Più semplicemente, non avevo fatto nulla, avevo lasciato che le cose scivolassero via da sé. Avevo lasciato che la radio, giorno dopo giorno, venisse trascurata e la televisione fosse sempre accesa. Forse perché per me non c'era alcuna differenza. Forse perché io, la mia razione di radio quotidiana, ce l’avevo: ore 8 , ore13 e ore 19 radiogiornale.
Cascasse il mondo.
E avevo anche lasciato che le puttane mi avvicinassero e si prendessero anche una certa confidenza.
Ero convinto che le lezioni del signor Anselmo, le avessi interiorizzate. Senza nemmeno il bisogno di ripassarle di tanto in tanto.
Anche perché le conoscevo ormai tutte, le signorine che passavano di lì. Non erano più di una decina, ma sembravano mille. Ora che non avevo più il riferimento del signor Anselmo, ora che non dovevo più imparare guardando, la mia attenzione si era spostata verso l'esterno. Lasciando l’interno del bar alle puttane e ai loro clienti. E quelli, i clienti, sì che avevo imparato a conoscerli bene.
I loro gesti di imbarazzo e di timore ormai li sapevo anche io a memoria.
Ero il solo punto nuovo, lì dentro. Bastavo alle signorine, da osservare. E, ad essere sinceri, non mi dispiaceva poi tanto essere il centro dell'attenzione, sia che venissi preso in giro, sia che mi chiedessero una qualche bevanda particolare. Nel giro di pochi mesi, avevo mandato a mente cosa ciascuna di loro preferisse. Amaro nazionale per una, per un'altra un succo di frutta, per un'altra ancora un Chivas. A volte me ne versavo anche io e mi sedevo accanto a loro. Ma non per parlare, semplicemente per sentirmi meno solo. E ascoltavo e ascoltavo, ore e ore, giorni e giorni. Senza mai lasciarmi andare, proprio come mi aveva insegnato il signor Anselmo. Come un prete che confessa i propri parrocchiani. Loro parlavano ed io pensavo alle partite di pallone. Non c’era un motivo particolare.
Forse, soltanto bisogno di un contatto. Prima, per lo meno, c’era il signor Anselmo a darmi retta, a reggermi il gioco. Ora, invece, non mi restavano che loro.
Era stato gioco forza allentare la tensione.

1 commento:

Unknown ha detto...

la tensione del prossimo capitolo mi sta uccidendo lentamente...