giovedì 20 dicembre 2007

QUATTRO

Nel capitolo tre: che strano, sto tizio. Mi parla di cose che non mi riguardano. Che sembrano non riguardare nemmeno lui. E anche questa cosa della pensione. Di quello che ha fatto il vecchio. Forse è solo tristezza, la sua.
Ma lo sarei anche io! Tutto il giorno tra la radio e le troie! E senza la radio!
Però, c'è qualche cosa che manca.
Nel senso. Se non fa niente, la colpa è anche sua. Mica può sempre essere rose e fiori.
Ma succede sempre qualcosa, no?
Sempre, no?
No?


E poi, una mattina, pioveva veramente forte e la macchina non voleva saperne, di partire.
"Accidenti. Cominciamo bene la giornata" dissi. E se “accidenti” non era proprio la parola esatta, il concetto era quello.
Ci volle un po', una mano da parte di un buon condomino, qualche spinta e una seconda inserita di colpo.
“Forse è tempo di cambiarla” mi fu detto. Ma si accese, alla fine, e non ci furono più problemi.
I tergicristalli correvano zoppicando sul parabrezza, l'acqua sembrava oliata e quasi non mi permetteva di vedere la strada. Sapevo che avrei dovuto cambiare le spazzole, ma avevo rinviato la cosa fino a quando non sarebbe stata un'operazione inevitabile. E adesso lo era. Ma mentre notavo l’inefficienza del meccanismo, mi chiesi perché dovessi lasciare giungere le cose fino al fondo, prima di cercare una soluzione.
Non vedevo proprio un cazzo.
Arrivai al bar poco prima delle nove, come al solito. Le strade di Milano sembravano ingolfate e le persone aspettavano solo di arrivare negli uffici ascoltando la radio. Qualcuno si innervosiva come è abitudine, e si lasciava andare in irruenti pressioni sul clacson. L'aria si faceva pesante sotto gli scarichi delle automobili e diventava sempre più difficile vedere sedili pieni di persone.
Gli autobus e i tram, avvantaggiati dalle loro corsie private, ci superavano e sembravano deriderci. L'unica consolazione era data dal fatto che chi guida un autobus avrebbe potuto lavorare anche a Natale o a Capodanno. Magra, ma pur sempre una consolazione.
Mi preparai il caffé e la sambuca da solo, senza rivolgere la parola a nessuno. Non sapevo nemmeno se avessi salutato entrando, o se invece non c’era nessuno all'interno del bar. Ma non me lo chiesi, non era certo una priorità. Avevo i piedi bagnati, e tutti sanno quanto si diventi irritabili coi piedi bagnati e con le calze aderenti come guanti da chirurgo.
Per terra, davanti alla porta di ingresso qualcuno aveva sparso della segatura. Che ora mi si era attaccata alle scarpe, formando una sorta di suola morbida e silenziosa. Volevo disfarmene, e lo avrei fatto se solo avesse avuto un senso. Ma sarei stato punto e a capo di lì a poco.
Me ne feci il sangue amaro, visto che non conoscevo il responsabile. Per quello che servivano le scarpe, lì dentro, potevano anche togliersele. Che nervoso, anche se poi lasciai perdere.
Passarono un paio d’ore e l'inverno cominciava a farsi vedere, più che sentire. La porta d'ingresso chiusa in maniera ermetica, le bottiglie rimanevano nel frigo e nessuno le richiedeva quasi più. Solo pochi avventurieri domandavano una birra.
Capii che era cominciata la stagione dei punch al mandarino quando vidi passare sul marciapiede una madre ed un figlio coi cappotti e le sciarpe calcate fin sulle orecchie. Per istinto mi presi le mani e cominciai a strofinarle, come se le sentissi fredde.
"Non è più il momento di pensare alle gite", dissi con un sorriso meschino sulle labbra, come se stessi prendendo in giro tutte le famigliole della domenica pomeriggio. Erano insopportabili per il semplice fatto che erano scontati. Genitori e figli, tutti col cappotto uguale, che ingloba mani e braccia, colli e gambe. Si vedono solo i polpacci e i piedi.
Come olive ascolane giganti su due stuzzicadenti.
Nemmeno ai tempi dell'università, in vacanza con gli amici, ero soddisfatto. Attendevo l'inverno per poter programmare una nuova estate e, in estate, non ero mai contento a pieno delle mie scelte. E volevo rimettere su i guanti, per poter parlare con qualcuno davanti ad un the caldo di un viaggio necessario da fare. Per ritrovarmi nella sensazione di solitudine che solo la primavera e gli autunni sanno dare. E in tutto questo, mi lasciavo trascinare dagli entusiasmi degli altri.
D'improvviso entrò un postino. Nel bar. Che strano, pensai, durante il lavoro. Che cazzo di perverso, ma sorrisi come ormai era diventato naturale. La spontaneità, in un posto come il mio, era cosa ormai artificiale e scontata.
Il signor Anselmo mi aveva insegnato a seguire una delle massime di Confucio: “Fatti i cazzi tuoi”.
Dalla radio partì una canzone accompagnata dal pianoforte di un musicista ben noto.
Il postino si sedette su uno sgabello davanti al bancone e le mani si avvicinarono alla macchinetta del caffé.
“Che tempo cane” disse. “Sono già stanco e non è nemmeno finita la mattinata.”
“Guardi, ora non c’è nessuno. Ma qualche minuto e arriverà un bocconcino…” mentii pur non sapendo quali fossero i turni.
"Non importa, grazie."
"Ma accetti. Fuori piove in maniera inverosimile, si dia tregua".
Era in imbarazzo, evidentemente conosceva il posto e ciò che ci succedeva dentro. Ed entrambi sapevamo che era fuori legge. Ma accettò di buon grado la pausa, posò la sua borsa carica di carta sul bancone e mi chiese una correzione al caffé.
"Grappa?" domandai, ma senza aspettare la risposta. Gliene versai abbondantemente, perché si sciogliesse. Avevo voglia di un interlocutore ordinario. Da come voleva sviare l’argomento, sapevo che non era un abituale frequentatore di prostitute.
Assaporò l'odore che saliva dalla tazzina, prima di bere. Lo facevano in pochi ormai, era una tradizione che col tempo si era persa. Poteva essere un gesto banale e conosciuto, snob per alcuni, ma in realtà è il naso che dà il vero sapore al caffé. Sorrisi e lui ricambiò. Sapevamo entrambi quanto facesse piacere riconoscere un gesto. L’idea di avere un legame antico probabilmente, ma anche la consapevolezza di essere un gradino sopra la massa. Nell’intesa che c’è tra due persone, quando una delle due sta appena per andare a farsi una scopata. E l’altro lo sa.
Si guardò attorno e, dopo qualche commento sul tempo e sui programmi televisivi, mi consegnò una busta.
Era di uno studio legale, per lo meno l'intestazione. Rimasi molto perplesso. La tenevo con entrambe le mani senza quasi riuscire a respirare. Nella mia testa, nemmeno una scimmietta che suonasse uno strumento.
"Guardi. Di solito è una convocazione alla lettura di un testamento.”
Che figuraccia. Quel povero cristo stava solo lavorando. E io ammiccavo. Mi avrà scambiato per un frocio. In certi posti girano. Sbarrai gli occhi e chiesi scusa.
“Ah. Io pensavo…”
“Non si preoccupi. Quanto le devo, per il caffé?"
"Offre la casa" risposi. Giusto per rimediare alla gaffe.
"Grazie. Arrivederci, allora", disse ondeggiando la mano e infilandosela subito in tasca.
Ma non risposi, preso dalla curiosità e dalla paura che infondono tutte le questioni istituzionali.
Mi venne in mente il processo di Kafka, e ne fui intimorito.
La busta conteneva veramente la convocazione alla lettura di un testamento. Pensavo che queste cose succedessero solo in America.
Era per lunedì mattina. Avrei dovuto prendere un permesso.

1 commento:

Vale ha detto...

o teo
bravo
ma sai che i miei oramai sono accaniti lettori?!
è che li devo tsampare io, magari quando parto poi glieli stampi tu?! hi hi